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UNIONI CIVILI

Matrimonio gay e utero in affitto: ecco il piano Cirinnà

Monica Cirinnà, relatrice del testo sulle unioni civili, non fa mistero rispetto a quello che è l’obiettivo finale della sua legge: «Arrivare al matrimonio egalitario». E, attraverso una nuova concezione del diritto come sistema “vivente”, alla legalizzazione delle adozioni per i gay e l’utero in affitto. 

Famiglia 23_03_2016
La senatrice Monica Cirinnà

Nello stesso giorno in cui il Tribunale dei minori di Roma ha legittimato con l’ennesima sentenza la programmazione da parte di coppie gay di bambini orfani di madre o di padre (quindi concepiti all’estero attraverso l’utero in affitto),  a qualche chilometro di distanza, la senatrice Monica Cirinnà confermava in un dibattito all’Università degli studi Internazionali di Roma (ex San Pio V) che il governo e il Partito democratico procedono spediti, in questi rimanenti due anni di legislatura, verso una «grande riforma» dell’istituto delle adozioni, al fine di rendere esigibile questo diritto «anche ai single e alle coppie omosessuali», e verso una completa equiparazione tra matrimonio e unioni civili, tramite l’abolizione dell’obbligo di fedeltà e l’estensione del “divorzio immediato” per tutti.

In barba a quelli che chiama i «fratelli coltelli» di una maggioranza obbligata dal risultato delle elezioni del 2013, la relatrice del testo sulle unioni civili non fa mistero rispetto a quello che è l’obiettivo finale di tutta questa rivoluzione normativa: «Arrivare al matrimonio egalitario». Un istituto che, de facto, sarebbe già stato normato se non fosse stato per «il tradimento grillino e l’ostruzionismo della Lega». Insomma, Cirinnà racconta una versione dei fatti tutta sua, in cui parla delle meschinerie di Ndc e dei tentennamenti dei cosiddetti cattodem, dei trappoloni del Carroccio e del «coraggio» di arrivare in aula con un testo senza relatore per evitare il blocco che si era creato in Commissione giustizia. 

Racconta, dunque, dei giorni concitati dell’approdo in Senato del testo che si concludono con una trattativa con Area popolare che porta al «gioco della torre». «La Boschi mi disse che gli alleati chiedevano di togliere un'altra cosa oltre le adozioni», rivela la senatrice agli studenti, «allora mi chiese di scegliere tra obbligo di fedeltà e riferimento alla vita famigliare». La Cirinnà scelse di sacrificare la fedeltà e spiega il perché attingendo a tutto il repertorio del pensiero unico e dei luoghi comuni di una sinistra illuminata che si sente portatrice di una visione moralmente e culturalmente superiore: «Dopo aver pensato: che brutte richieste che fanno questi dell’Ncd! Decisi personalmente sacrificare la fedeltà perché ritengo che non sia più un principio fondante del matrimonio. Ho pensato che in fondo la fedeltà nel matrimonio civile ideato negli anni 40 non è altro che il residuo più forte del maschilismo che pregnava quel tipo di normativa e quel tipo di matrimonio vincolistico e patriarcale facente riferimento alla famiglia tradizionale. Una visione per cui tu che mi tradisci sei una sgualdrina e ti posso ammazzare e per la quale anche il delitto d’onore aveva un fondamento. Per cui io non ci ho pensato un memento e al brutto gioco della torre ho buttato giù l’obbligo di fedeltà».

E per giustificare le corna di Stato la Cirinnà butta lì anche una bella spruzzata di anti- fascismo che non passa mai di moda: «Io che sono un avvocato penalista vi dico solo che l’obbligo di fedeltà fu inserito nel codice Rocco del 1931, lo stesso anno in cui Mussolini si dichiarava responsabile dell’omicidio Matteotti». Qualcuno in sala le fa notare che il discorso del duce sull’omicidio Matteotti fu pronunciato del 3 gennaio del 1925, ma il senso del discorso cambia poco «era per dire che comunque siamo fermi a quegli anni lì!». L’ex consigliera del Comune di Roma trova talmente assurdo che la fedeltà sia normata per legge che, infatti, si è subito schierata con i promotori della sua abolizione anche all’interno dell’istituto del matrimonio. «Forse le unioni civili», argomenta la Cirinnà, «non sono altro che un matrimonio moderno…l’istituto giuridico più appropriato a cui dovremmo guardare anche noi etero-sessuali». 

Peccato che la stessa Cirinnà si rifiuta poi di rispondere a uno studente che le faceva notare che le unioni civili normano l’affetto tra due persone che è molto meno misurabile della fedeltà. Così come non risponde al sottoscritto che le chiede come pensa di difendere il coniuge più debole che subisce un’infedeltà e che, senza il principio di fedeltà, non potrà nemmeno più chiedere l’addebito del divorzio. Ma sono tutti interrogativi di un’Italia che la stessa Cirinnà definisce arretrata fatta di tanti «Don Camillo e Peppone».

Ovviamente la visione moderna e progressista non nega nemmeno la possibilità dell’utero in affitto, sebbene «al momento non sia nell’agenda del Partito democratico», ma visto che mancano solo due anni alle elezioni politiche sarà il prossimo Parlamento ad occuparsene dal momento che l’eroina dei diritti civili annuncia che, finita la legislatura, si ritirerà a fare olio e vino nella sua azienda agricola. Si arriva così alla summa di tutto il ragionamento relativista della senatrice Cirinnà, che non esprime mai giudizi di merito né sulla filiazione né sulle pratiche come la compravendita di gameti e di ovuli per portare a termine una gestazione per altri: «Quando un parlamentare fa una legge non la fa pensando a quello che farebbe su se stesso. Quindi anche se questo Paese non affronterà mai una legge per la gestazione per altri dovrà comunque pensare a dare una risposta alla totalità dei suoi cittadini e a tutte le casistiche che si possono presentare. Quando diventi parlamentare», aggiunge Cirinnà, «non esiste una tua morale personale. Esiste solo la Costituzione che diventa la tua religione. Rispetti quella poi nel tuo privato fai quella che vuoi». 

Insomma, in questo calderone di frasi fatte e luoghi comuni che seguono una narrativa sgrammaticata e un racconto storico distorto, emerge tuttavia una visione della legge e del legislatore ben chiara: l’etica e la «coscienza ben formata» non possono avare alcuno spazio pubblico, il diritto deve limitarsi a normare tutto quello che esiste e che offre la tecnica perché in quanto tale non può esserne impedito l’accesso a chiunque ne voglia fare ricorso. Detto in parole povere è l’apologia di quello che la Cirinnà chiama il «diritto vivente» che interpreta la normativa vigente in maniera “evolutiva”. A dare man forte al ragionamento della senatrice del Pd era presente niente di meno che l’ex presidente della Corte Costituzionale, Alfonso Quaranta, il quale senza scomporsi ha preso la parola subito dopo la parlamentare dem e ha articolato tutto un intervento teso supportare la visione evolutiva del diritto vivente: «I principi dettati dalla Costituzione sono delle affermazioni generali che richiedono tutta una serie di attività successive che si esprimono non solo nello svolgimento diretto nella normativa. I 139 articoli per loro natura non potevano comprendere un universo intero».

Quaranta accontenta subito tutti con un esempio: «L’articolo 41 parla dell’autonomia dell’imprenditore. Ma chi è l’imprenditore? Non è mica la Costituzione che dice chi è l’imprenditore. Cosi come non vi dirà mai cos’è la proprietà». Quaranta punta dritto al matrimonio, anche se nessuno in sala si azzarda a chiamare le cose con il loro nome. Ma come è possibile che il presidente emerito si scordi – forse saranno gli 80 anni appena compiuti – dal dire che la Carta non istituisce ma “riconosce” la famiglia società naturale fondata sul matrimonio? D’altra parte i padri costituenti si sono limitati a riconoscere una formazione sociale che esiste da sempre, un tipo di unione che si basa su legami pre-politici e connaturati all’essere umano. Ma tutto questo evidentemente puzza di anticaglia reazionaria se Quaranta arriva ad affermare che “l’unione tra uomo e donna si riferiva agli istituti che allora erano nell’ordinamento ma che adesso vanno letti nella realtà sociale di oggi”. 

Forse il pubblico in aula pensava di aver udito tutto è il contrario di tutto ma è nel finale che arriva la perla del ragionamento del costituzionalista: «Gli storici del diritto stanno demolendo il positivismo giuridico: dicono che la legge non conta niente, quello che conta sono i fatti, è la fattualità economica che condiziona la vita degli Stati attraverso la globalizzazione e attraverso tutte le altre belle cose che deliziano i nostri tempi. Ormai i fatti sono la base delle discipline giuridiche. Oggi si arriva a dire che il catalogo delle fonti del codice civile non serve più a niente perché le fonti non sono più quelle indicate nelle pre-leggi o predisposizioni preliminari, perché la realtà ha cambiato i termini delle problematiche. Oggi sono i fatti quelli che contano. Oggi c’è una legge nuova che regola tutto: la lex mercatoria, la legge del mercato che regola tutto perché non esiste più in una dimensione territoriale, oggi il mondo è un villaggio neanche troppo grande». 

Musica per le orecchie della Cirinnà che coglie l’occasione per rincarare la dose: «Questa è l’evoluzione del diritto: è il diritto vivente che supera un diritto fotografato, la nostra meravigliosa costituzione non può più essere ancorata agli anni in cui è stata scritta». I sostenitori del diritto naturale se ne facciano una ragione, bastano meno di due ore di incontro e successivo dibattito in un’università romana perché una parlamentare e un costituzionalista facciano a brandelli millenni di filosofia del diritto. Ora sappiamo con certezza che tramutare le sentenze dei tribunali in leggi è solo una pura formalità per coloro che hanno fatto del mercato l’unica giustizia sociale a cui fare riferimento. Ora più che mai sappiamo chi è dalla parte del più debole.