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ANNIVERSARIO

Manzù sulla soglia della Bellezza

Il 17 gennaio di vent'anni fa moriva lo scultore che fu amico dei prelati ma non varcò mai la porta della fede.

Cultura 15_01_2011
Giacomo Manzù


Le porte. Manzù può essere per molti lo scultore delle porte. Chiunque abbia guardato, anche solo dietro lo scarno invito di una guida, la Porta della Morte nella Basilica di San Pietro in Vaticano, ne sarà rimasto impressionato. È dura e bella, quasi fuori posto nel regno della perfetta armonia. Opera dalla lunga gestazione: nel 1947 Manzù partecipa al concorso di primo grado, gli viene commissionata da Pio XI nel 1952 con il titolo di Il Trionfo dei Santi e dei Martiri della Chiesa; con Giovanni XXIII vede esaudite le richieste di cambiare il soggetto nella rappresentazione de La Morte, ma poi elabora più soluzioni tutte diverse.

Nel 1964 Paolo VI inaugura la Porta della Morte che contiene dieci bassorilievi: Morte di Maria, Morte di Cristo, Morte di Abele, Morte di Giuseppe, Morte di Stefano Martire, Morte di Gregorio VII, Morte per violenza, Morte di Giovanni XXIII, Morte nell’aria, Morte sulla terra. La completano frutti e animali simbolici. Un’opera «forte», passata per le visioni di tre papi. In materia di porte di chiese lo scultore ha un bel catalogo: Porta dell’Amore, Duomo di Salisburgo (1958) e Porta della Pace e della Guerra, Chiesa di St. Laurenz, Rotterdam (1969), oltre alla citata nella Basilica di San Pietro.

Basterebbe questo a farne un artista d’importanza internazionale nel secondo Novecento. E certamente lo è stato, anzi quella di Giacomo Manzù è una carriera artistica senza precedenti. E molto genuina. Nacque nel 1908 nel bergamasco da una famiglia numerosa e così povera che non gli poté permettere nemmeno di terminare la scuola elementare, cosicché il piccolo Giacomo si trovò presto a lavorare in bottega dall’intagliatore e doratore Dossena. Anni più tardi la visione delle porte di San Zeno a Verona lo convinse a dedicarsi seriamente alla scultura. Non gli mancò il viaggio di prammatica a Parigi e dal 1930 si stabilì a Milano. Era sempre più apprezzato da artisti e intellettuali, primo fra tutti Piero Bargellini.

Nel ’39 ottenne il Premio Savini per l’Arte e un riconoscimento nella III Quadriennale di Roma, alla quale portò uno dei suoi famosi Cardinali e il David. Da lì sarebbe nato uno stretto legame con Cesare Brandi. Espose con il gruppo Corrente e nel 1940 divenne titolare della Cattedra di Scultura all’Accademia Albertina di Torino e a quella di Brera a Milano, dove insegnò affianco a Carlo Carrà e Felice Casorati. La IV Quadriennale di Roma gli conferì il Gran Premio per il Ritratto di Francesca Blanc.

Nel 1947 il Palazzo Reale di Milano gli dedicò la prima mostra antologica quando non aveva ancora quarant’anni. Agli insegnamenti in Accademia rinunciò per alcune incompatibilità ma nel 1954 riceveva l’incarico alla International Sommerakademie di Salisburgo insieme a Oscar Kokoschka. Lì conobbe Inge Schabel, ballerina dell’Opera, che sarebbe diventata sua moglie e musa. È prolisso il rendiconto di una carriera lunga e immensamente feconda fino alla sua morte. Per citare solo le ultime tappe di un trionfo planetario, nel 1984 una mostra itinerante tocca le più importanti città giapponesi.

Lo stesso anno riceve il Premio Internazionale per la Scultura «Antonio Feltrinelli» assegnatogli dall’Accademia Nazionale dei Lincei. Nel 1988 le sculture Fauno e Ninfa vengono collocate nel Palazzo della Borsa di Tokio. A coronamento delle rassegne dedicate a Manzù, che proliferano per tutti gli anni Ottanta, nel 1989 viene donata alle Nazioni Unite a New York, dallo Stato Italiano, l’ultima opera monumentale di Manzù, alta sei metri, Inno alla Vita (Madre con Bambino).

Il 17 gennaio 1991, vent’anni fa, Giacomo Manzù si spense all’età di ottantatre anni. Il suo corpo riposa oggi nella Raccolta Manzù di Ardea. Scolpite sulla lapide, le parole composte da mons. Loris Capovilla: «In questa terra sacra / alla memoria dei Rutuli / scelta come dimora ideale / accanto alle sue opere / che ne mantengono vivi e onorati il nome e la fama / riposa Giacomo Manzù. 1908 - 1991». Tempra di vero artista, non esitava a dichiarare: «Io lavoro perché mi è una necessità indispensabile all’anima. Per il resto, se vi è qualcosa da dire, penseranno i miei disegni e le mie sculture». Non bisogna chiedere a Manzù di diventare improvvisamente il filosofo che non fu. Parlino le sue opere.

Per il resto, da artista sensibile, aveva accumulato nel suo immaginario un patrimonio di emozioni eterogenee che danno ragione della diversità della sua opera: «Il mio lavoro è il ritratto della mia voce, l’incontro coi morti della “spagnola” e con la natura, dai dieci ai quattordici anni. Vi è la sedia, che è l’unica eredità di casa mia, vi sono i cardinali, che sono il ricordo della mia infanzia, vi è il Cristo dell’umanità, che è stato il mio primo conforto e poi sconforto, vi è la vestaglia che portava la signora Lampugnani, vi è il partigiano impiccato che ho visto, vi sono i morti innocenti della guerra, l’incontro con Inge, che mi ha portato l’amore nella vita e nel lavoro, vi è Lenin che ho visto morto, vi sono gli incontri con Papa Giovanni, vi sono i miei figli Giulia e Mileto che vivono con me, vi sono le pieghe che mi perseguitano e, in ultimo, tutti i sacrifici con i quali vivono le mie speranze».

Aveva proprio ragione nell’affermare che «la luce, quando si lavora, viene dalle mani». Questo era Manzù. Stilisticamente gli siamo debitori di una raffinata semplificazione formale che non scade mai nel lezioso o nel banale ma ritiene sempre la ruvidezza della vita vera. Com’è noto, entrò pienamente nelle simpatie di Giovanni XXIII, che lo chiamava con sincero affetto «il figlio del calzolaio» e che non disdegnava di usare con lui il dialetto bergamasco. E che non fece una piega dinnanzi ai ritratti in cui veniva esagerata la pontificia rotondità.

Eppure, benché abbia frequentato tanti cattolici e uomini di Chiesa, benché abbia affrontato tante volte il tema religioso, Manzù non si avvicinò alla fede. Si dichiarava comunista, chissà con quale convinzione. E diceva che Dio era troppo grande per l’uomo. Non capì che quel Dio tanto grande si è abbassato fino a diventare uno di noi, proprio perché lo possiamo guardare in faccia. Se l’avesse capito, la sua scultura religiosa sarebbe stata cristiana, mentre purtroppo, e malgrado sia stata osannata da tutte le parti, non riesce a varcare la soglia dell’umano, della tragedia umana dove i morti sono solo morti.