Mamma Lucia vinse l'odio con la misericordia
Dal 1943, Lucia Pisapia Apicella si mise a cercare, ricomporre e riconoscere i cadaveri dei soldati dispersi, specialmente quelli tedeschi, che tutti disprezzavano. Lei è il monumento a quell’opera di misericordia “Seppellire i morti” che è ben oltre il semplice atto fisico, ma che racchiude enormi significati di perdono a di affidamento a Dio.
In un Paese che non sa cosa sia il rispetto per i Caduti, che brandisce la memoria come un randello, in una società dove agenzie di pompe funebri fanno pubblicità umoristiche sulla morte, la figura di Mamma Lucia ammutolisce tutti quanti.
Ogni tanto la sua storia riesce fuori, ma sempre a mezza bocca, sempre impiastrata da quelle patine vischiose politicamente o clericalmente corrette che minimizzano la sua grande archetipica.
L’8 settembre 1943, con l’operazione Avalanche - Valanga, gli Alleati sbarcano a Salerno con sette divisioni, per un totale di 170.000 uomini. I tedeschi, meno della metà, li lasciano avanzare fino alle montagne e da lì, ben arroccati, oppongono una resistenza talmente accanita che infliggeranno al nemico perdite tre volte superiori. Dopo dieci giorni di inferno, però, devono ritirarsi. Gli Alleati raccolgono i propri caduti, ma non quelli tedeschi, in genere sparpagliati fra quelle rocce e dirupi bombardati dall’artiglieria alleata.
I corpi restano così a decomporsi all’aria aperta, o preda degli animali selvatici. Passano tre anni e un giorno una donna del popolo di Cava de’ Tirreni, moglie di un fruttivendolo e madre di due bambini assiste a una scena agghiacciante: dei ragazzi che giocano a calcio con un teschio, affiorato dal terreno chissà come. Durante la notte le appaiono in sogno otto soldati che si levano da altrettante tombe dalle croci divelte. I giovani la implorano di riportarli alle loro famiglie.
Lucia Apicella era una donna cattolicissima, fin da ragazzina aveva dimostrato un animo pietoso e uno stomaco forte, recandosi ad assistere malati e moribondi all’ospedale, anche contro la volontà dei genitori che temevano portasse in casa qualche malattia. Come moglie di un reduce della Grande Guerra, conosceva le sofferenze dei soldati.
Dopo quel sogno, Lucia Apicella scrive al comando alleato per chiedere il permesso di seppellire i caduti nemici. I militari la rimandano al proprio sindaco il quale, dopo molte insistenze, la autorizza e le mette a disposizione due becchini. In tre cominciano quindi a recarsi nei luoghi sperduti dove era stata segnalata qualche “presenza”. Il lavoro è orribile e presto i due aiutanti si tirano indietro. Oltre a temere malattie, i cadaveri dei soldati sono spesso carichi di armi e bombe ancora efficienti e giacciono in siti pieni di ordigni inesplosi.
Senza perdersi d’animo, Lucia si fa aiutare da una parente, Carmela Pisapia e, con zappa e vanga, scava, raccoglie e pulisce le ossa dei soldati tedeschi. Ogni tanto capita anche qualcuno alleato, ma sono pochi. Lei raccoglie tutti, senza badare alla nazionalità. “Song tutt’ figl’ e mamma” rispondeva tranchant a chi le sconsigliava di proseguire quel lavoro così disgustoso e pericoloso. Infatti, ricorda Lucia come una volta dovette grattare a mano la terra per far uscire due grossi proietti d’artiglieria inesplosi prima di trovare i due giovani che vi erano seppelliti. Prendeva le ossa, le lavava e le riponeva in delle cassettine di zinco insieme a quegli effetti personali che spesso si trovano addosso ai soldati morti: piastrini di riconoscimento, orologi, portasigarette, portafogli, a volte l’elmetto. Questi contenitori li commissionava lei stessa al fabbro del paese e, per pagarli, attingeva ai suoi risparmi, a volte si levava la lana dal materasso per filarla e venderla. Poi impilava le cassette zincate nella piccola chiesa di San Giorgio, in attesa che le autorità le rimandassero alle loro famiglie. Raccolse circa 800 ragazzi che, per la maggior parte, furono identificati.
Quando lei stessa riportò in Germania il caporale Joseph Wagner alla madre, che aveva perso anche i suoi tre fratelli, fu talmente coinvolta dallo strazio della donna che non ebbe più la forza di proseguire.
Fu nominata Commendatore dalla Repubblica e in Germania, dove veniva chiamata Mutter der Toten, madre dei morti, fu pure onorata con la Gran Croce al Merito. Morì a 92 anni nel 1980.
Mamma Lucia è stata proposta anche per una canonizzazione, ma il processo si è arenato per “mancanza di miracoli”.
Avvenire ha recentemente scritto un pezzo su Lucia Apicella, ma ha mascherato la verità, accennando vagamente al fatto che lei raccogliesse “tutti”. No. Mamma Lucia ha raccolto in grandissima parte caduti tedeschi, (sì, quelli con la svastica sul petto), non per altro, ma perché quelli erano rimasti sul terreno e nessuno li voleva raccogliere. Erano il nemico sconfitto, i loro corpi facevano schifo a tutti e i ragazzi giocavano a palla con le loro teste. Ma quella Madre italiana, cattolica preconciliare, vestita di nero e col viso scavato, si è incallita le mani per scavare nella putredine e riportare le ossa di quei figli presso le loro famiglie e nella loro patria. Lei è il monumento a quell’opera di misericordia “Seppellire i morti” che Avvenire si è guardato dal nominare, un precetto ben oltre il semplice atto fisico, ma che racchiude enormi significati di perdono a di affidamento a Dio.
Invece di inneggiare alle “donne dell’Anpi”, come nel titolo di ieri, il quotidiano dei vescovi avrebbe potuto aiutare Mamma Lucia a fare davvero quel miracolo che l’Italia aspetta: seppellire l’odio per una guerra finita 75 anni fa.