Maltempo: cercasi geologo condotto per la prevenzione
Nuovo disastro dopo giorni di maltempo. Le immagini parlano chiaro: sono quelle della A6 distrutta, del Bormida e del Ticino esondati. Di chi è la colpa? Di nessuno, ma per il futuro “ci vuole il geologo condotto”, come spiega alla NBQ il geologo Uberto Crescenti. Lo dice da decenni, ma la politica preferisce riparare piuttosto che prevenire.
“Ci vuole il geologo condotto”. Il professor Uberto Crescenti (ordinario di Geologia Applicata dell’Università G. d'Annunzio di Chieti) aveva lanciato questa idea, sulla Bussola Quotidiana, otto anni fa. E adesso, alla luce del nuovo disastro dovuto al maltempo nell’Italia nord-occidentale, non può che ribadirlo: ci vuole un team di esperti per prevenire il disastro. La prevenzione è possibile e ha costi, umani soprattutto, decisamente inferiori alla cura.
Le immagini a cui assistiamo, dopo quasi una settimana di piogge intense, sono catastrofiche: un viadotto dell’autostrada A6 Torino-Savona è crollato, una voragine si è aperta sulla A21, il fiume Bormida è esondato nell’Alessandrino e ha provocato una vittima, il Ticino è esondato a Pavia, mentre anche a Torino le acque del Po sono diventate alte in modo preoccupante. Il miglioramento del tempo, ieri, in tutto il Nord Italia, ha segnato l’inizio di una tregua e permette di fare qualche riflessione di fronte all’ennesimo disastro, che è costato vite umane e danni ingenti. Il governo Conte ha annunciato lo stanziamento di 11 miliardi su base pluriennale.
Professor Crescenti, si cercano responsabili. Chi è il colpevole stavolta?
Eventi di questo tipo si sono sempre verificati e sempre si verificheranno. Il nostro è un Paese fragile per le sue caratteristiche geologiche e geomorfologiche. A Pavia, ad esempio, sono indicati i livelli raggiunti dalle alluvioni del Po e sono tre o quattro volte più alti rispetto a quelli odierni. Purtroppo questi eventi fanno più notizia oggi perché l’ambiente è più antropizzato rispetto al passato: ci sono più centri abitati, strade e opere dell’uomo in generale. E ci sono zone a rischio che non dovrebbero essere urbanizzate. Si tende a dar la colpa al cambiamento climatico, ma non c’entra nulla: l’alluvione di Firenze del 1966 e quella del 1951 nel Polesine, sono fenomeni ricorrenti, a prescindere dal clima.
Cosa si deve fare?
Non posso far altro che riproporre l’idea del “geologo condotto”: ogni comune o gruppo di comuni, deve dotarsi di un geologo che viva nel territorio, che lo metta sotto controllo, che conosca quali sono le conseguenze immediate in caso di maltempo. Un esperto, insomma, che sia in grado di lanciare un’allerta per tempo. Non solo. Il geologo condotto potrebbe consigliare anche come prevenire questi fenomeni. Perché oggi quel che manca è la manutenzione del territorio. Non c’è più. I politici dovrebbero parlare meno e ascoltare di più gli esperti. Dopo l’alluvione di Firenze, ad esempio, riunirono la commissione guidata dal professor De Marchi, ordinario di Idraulica, che produsse uno studio molto dettagliato. Quella relazione finì nel sottoscala del ministero. Non basta nominare commissioni o produrre documenti, bisogna agire, intervenire concretamente.
Come può realizzarsi la manutenzione del territorio?
Le frane difficilmente colgono di sorpresa, avvengono quasi sempre dove sono già avvenute. Le frane di nuova generazione, sui versanti in cui non si sono mai registrate in passato, sono molto rare, circa il 10% dei casi. Dunque sappiamo quali sono i versanti pericolosi, che possono franare alla prima pioggia intensa. E quindi è lì che serve un intervento di manutenzione per prevenire la “malattia” (perché la frana è una malattia del terreno), con la giusta cura: l’acqua piovana va raccolta e portata altrove, sia con un’opera di canalizzazione e raccolta, sia soprattutto con la riforestazione. Un bosco rallenta la caduta dell’acqua e le piante ne bevono gran parte, almeno un terzo. Laddove ci sono opere (ferrovie, strade e autostrade, ad esempio) che attraversano aree franose, questi interventi diventano più urgenti.
Quanto alle costruzioni nei luoghi a rischio?
Innanzi tutto si dovrebbe evitare di rilasciare permessi di costruzione nelle aree alluvionali. Un caso storico permette di capir bene cosa intendo: un’alluvione che coinvolse un’area di confine fra l’Italia e la Svizzera provocò danni ingenti solo sul nostro versante. Non perché la pioggia fosse più intensa da questa parte del confine, ma perché in Italia anche le aree a rischio erano state imprudentemente urbanizzate. Le conoscenze ci sono, a Torino ha sede l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (Irpi) che conosce molto bene il territorio. Questi centri di ricerca devono essere utilizzati per fare prevenzione, prima che ci sia un danno miliardario da riparare.
Nel caso dei fiumi, quale può essere la prevenzione delle esondazioni?
L’unica, appunto, è non costruire su zone esondabili. Purtroppo non è più possibile, perché hanno costruito in aree che possono essere alluvionate. Sul fiume si deve intervenire facilitando lo scorrimento dell’acqua: manutenzione dei fossi e sotto i ponti, ad esempio. Ed è un compito che può non produrre gli effetti desiderati, quando piove molto è difficile contenere un fiume e prevenire un’alluvione.
E nel caso dei terremoti, il meno prevedibile degli eventi?
Non possiamo prevedere quando avverranno, ma ipotizzare dove. L’Istituto Nazionale di Geofisica è un centro d’élite e conosce bene tutte le zone a rischio. E nelle aree sismiche non si può far altro che costruire bene, convivere col terremoto limitando i danni. Due i modi di costruire bene: nuove case antisismiche e messa in sicurezza del patrimonio storico. Ogni regione dovrebbe provvedere a salvaguardare il proprio patrimonio, un investimento di lungo e lunghissimo periodo (fino a 100 anni).
Visto che se n’è parlato la settimana scorsa, come salvare Venezia?
Solo con il Mose, un progetto validato dai massimi esperti di questo settore, anche olandesi (provenienti, dunque, da una nazione che vive sotto il livello del mare). Purtroppo, come per tutte le opere pubbliche, si sa quando cominciano i lavori, ma non si sa mai quando finiscono, né quanto arrivano a costare. Venezia ha da sempre un problema di acqua alta, lo vediamo anche in un quadro di Vincenzo Chilone del 1825. Nessuna novità, dunque, l’importante è adattarsi. Il Mose è l’unico progetto che possa difendere la città.