LETTERATURA
Malattia in prosa
Da Edipo a Thomas Mann, scrittori di ogni tempo hanno riflettuto sulla caducità dell’uomo e sul desiderio del benessere interiore.
Attualità
11_02_2012
Anni fa, una signora molto anziana, a me molto cara e molto vicina, rifiutò con sdegno assoluto la proposta del parroco di ricevere l’Unzione degli Infermi, perché, sbottò, scandalizzata e pure un po’ spaventata: “Non sono mica moribonda!”. La battuta identificava erroneamente, tout court, come voleva la devozione popolare, sincera, ma spesso ingenua e propensa a semplificare un po’troppo, l’Unzione degli infermi con un’Unzione che si impartisce solo ed esclusivamente a chi è in fin di vita.
Ma, come tutti sanno, l’Unzione dei malati ha un significato ben più profondo e ricco. Del resto, la condizione di malattia accomuna tutta l’umanità; nessuno di noi vi si può sottrarre totalmente, sia che riguardi noi stessi in prima persona sia che tocchi chi ci è caro. E per dimostrare quanto l’esperienza della malattia sia connaturata all’esperienza umana di per sé, pensiamo a quanto spesso sia stata caricata di una valenza metaforica, simbolica, a cominciare dalla tabe, l’orrenda pestilenza che travaglia Tebe nell’Edipo Re, e che è l’epifenomeno di una più profonda malattia morale, di un inquinamento spirituale che deriva dal duplice delitto, contro le leggi umane e divine, compiuto da Edipo. E la malattia fisica, del resto, è stata nel corso dei secoli caricata di valenze, nella convinzione di una interconnessione profonda fra mente e corpo, fra componente spirituale e morale e la componente fisica dell’essere uomini. Seneca, nel I sec. d. C., quando parla delle affezioni che il mondo “moderno” arreca allo spirito umano risulta ancora straordinariamente eloquente, a quasi duemila anni di distanza. E per rappresentare l’alterazione “patologica” del vivere della modernità, usa proprio la metafora della malattia, e assimila la filosofia al medico o alla medicina (Epistulae ad Lucilium, 50), a testimonianza del fatto che la persona umana è unica nella sua totalità e integrità.
Ma è nell’Ottocento, romantico prima e decadente poi, che la malattia assume una serie di valenze simboliche dall’intensità e pregnanza tali che, ancora oggi, fatichiamo spesso a uscire da questi stereotipi. Dopo la peste, in via di scomparsa nel Settecento, le malattie caricatesi di un forte simbolismo erano diventate il colera, la sifilide, la tubercolosi; la prima, come dimostra La morte a Venezia di Th. Mann, insieme con il tifo, è associata, per le sue manifestazioni, alla degradazione, come quella, appunto, di Gustav von Aschenbach; in lui, la malattia richiama le insane passioni di cui è stato preda. Del resto, una forte valenza metaforica era stata assunta, per le sue spaventevoli manifestazioni esantematiche, anche dal vaiolo: ricordiamo la conclusione delle Relazioni pericolose. Nel finale del romanzo, la bellissima e spregiudicatissima marchesa di Merteuil, dopo molto maneggiare, non riesce a evitare che il complotto che ha ordito le esploda tra le mani, rivelando al mondo le sue trame; colpita dal vaiolo, inoltre, resta sfigurata, tanto che, dice il narratore, “le si vede l’anima in faccia”.
Sifilide e tubercolosi sono mali, invece, con una valenza strettamente legata al singolo individuo. La prima malattia, naturalmente, si porta dietro anche lo stigma della condanna, in quanto, anche se a lungo ne rimasero oscuri nel dettaglio i contorni medici, l’evidenza delle modalità del contagio contribuiva a farla interpretare in termini di riprovazione morale e di senso di colpa. La tubercolosi, invece, sconfitta solo negli anni Cinquanta del Novecento (e, oggi, tristemente in lenta nuova diffusione anche nel mondo occidentale) aveva goduto di una fortuna letteraria notevole nell’Ottocento. I Romantici, ricordiamo Keats, in mancanza dei moderni antibiotici, come la streptomicina, si sono confrontati più volte con questa malattia, spesso soccombendo, e creando “il tipo” del giovane romantico: pallido, quasi emaciato, dall’aria tormentata, estatica e assorta.
L’immagine del corpo malato di tubercolosi, per colmo di ironia della sorte, diviene, nel XIX secolo, un segno di distinzione, di “aristocrazia dell’animo”, secondo l’immagine alla moda del “giovane genio artistico”, innamorato e magari malato ai polmoni, come nel caso di Chopin (1810-1849): in età romantica, addirittura, l’aria languida e pallida, la magrezza estrema, e persino la tosse, erano diventati simboli di forte distinzione sociale e di distacco dagli ideali brutali del volgo. La tubercolosi, o tisi, o mal sottile, è la malattia di Margherita, la “Signora delle Camelie”, protagonista del romanzo di Alexandre Dumas Fils, e ispiratrice della verdiana “Traviata”: ma è anche il male di Hans Castorp, protagonista della Montagna incantata di Mann. Il giovane Hans, giunto in sanatorio per accompagnare il cugino, ignora di avere anch’egli in sé una germe del male. Costretto a rimanere dentro la clinica, vi passerà sette anni, affinando la sua istruzione e la sua capacità critica, e diventando uomo nel piccolo mondo, per niente asfittico, del sanatorio, che si trasforma in un luogo in cui crescere, maturare, conoscere lo spirito del mondo e dei tempi attraverso le lunghe chiacchierate con gli altri ricoverati e ammalati. Solo in questo senso la malattia diventa qualcosa di più del puro abbrutimento di una condizione medica difficile, come nel caso del terribile racconto La morte di Ivan Ili’c di Tolstoj, capace di fotografare in modo potente e per nulla scontato nella sua spietatezza, la condizione disperata di un uomo solo con il suo male, che niente e nessuno, nemmeno i familiari più vicini, può, sa, e, forse, nemmeno vuole raggiungere al fondo della sua disperazione.
Scriveva Novalis, a proposito delle malattie: “Finora conosciamo molto male l’arte di servircene. Probabilmente, esse sono la materia e lo stimolo più interessante della nostra riflessione e della nostra attività. Qui certamente si possono cogliere frutti infiniti, specialmente, mi sembra, nel campo della morale, della religione e Dio sa di che cos’altro ancora” (Frammento 622). Ma, se si limitasse a questo, sarebbe ben povero il valore e il peso della malattia nella vita dell’uomo, e sproporzionatamente pesante rispetto ai piccoli tocchi di ordine pratico o simbolico che la storia del pensiero e della letteratura hanno trovato in moltissimi elementi –letterari.
Anche Gesù, dicono i Vangeli, aveva operato molti miracoli e guarigioni; e la sua attività di taumaturgo non è “un fatto fra i tanti”, ma rivela, piuttosto, una concezione moderna dell’uomo, attenta alla sua condizione creaturale, sollecitamente affettuosa nei confronti del suo benessere e della sua gioia, intesi nel senso più autentico e vero. Come fa notare Anselm Grün, monaco benedettino e scrittore, nel suo bellissimo Buona guarigione (Ellenici 2011), quando leggiamo delle guarigioni operate da Gesù, la prima, umanissima reazione, è pensare che a quei malati “è andata bene, in fondo”,e magari, a tanti altri, invece no. Se però rileggiamo Mc 10, 47-52, la storia del risanamento del cieco che “gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”, non ci serve un grande acume per capire che anche noi abbiamo tutto il diritto a gridare forte all’indirizzo di Gesù per essere soccorsi. E quel gesto, il gettare via il mantello, significa che proprio la malattia è il momento di gettare via tutte le nostre maschere e ruoli. Gesù, nel finale, dice al cieco: “Va’, la tua fede ti ha salvato”.
Chi crede, già per questo apre occhi nuovi sulla vita e sul mondo. La malattia chiede sì la guarigione, certo, e, insieme, vuole insegnare a vedere con occhi diversi. Solo rinunciando alla nostra cecità, già in quell’istante, siamo sani e salvi, indipendentemente dal fatto che si sia o meno guariti dalla malattia (p. 28). E, conclude Grün, l’augurio è che “incontrando Gesù (si) riesca a vedere il mistero racchiuso in tutte le cose”, sentendoci in buone mani, le sue, sostenuti e protetti, e, soprattutto, con “pace interiore e riconciliazione con tutto ciò che è stato”.