Maduro da morire. Cronaca di uno strano attentato
Venezuela: droni carichi di esplosivi provano a colpire il presidente Maduro, ma esplodono prima. Il capo di Stato bolivariano promette vendetta contro i nemici interni ed esterni, ma non si sa se è una messa in scena, oppure se è il gesto estremo di un dissidente in un paese disperato.
Parata militare sul viale Bolivar, a Caracas, capitale del Venezuela. Il presidente Maduro sta tenendo un discorso per l’anniversario della Guardia Nazionale. Si interrompe, guarda in alto. Le guardie del corpo gli fanno scudo prima con i loro corpi, poi, immediatamente dopo, coprendo loro stesse e il capo di Stato con una barriera di scudi anti-proiettile. Nel video si sente almeno un’esplosione, poi le trasmissioni si interrompono. Parrebbe di rivivere gli ultimi istanti di Sadat, il presidente egiziano assassinato dai Fratelli Musulmani durante una parata militare. Ma Maduro è sopravvissuto e non ha nemmeno un graffio. L’attentato c’è stato e ha provocato sette feriti. Adesso è il momento della repressione, anche se il mandante è ancora avvolto nel mistero.
Stando alla ricostruzione ormai unanime degli eventi di sabato sera (domenica mattina, per l’Italia), due droni carichi di esplosivi sono esplosi quando erano ancora in volo, ma erano destinati a colpire proprio il presidente venezuelano. Le immagini dei telegiornali del Venezuela ci mostrano anche un palazzo con un incendio al primo piano. Sarebbe stato colpito da uno dei due droni. La conferma di quest’ultimo fatto non c’è ancora, però. Una rivendicazione è giunta poco dopo il fallito attentato, da parte di un sedicente gruppo di militari che scrive dall’account Twitter “Soldati in T-shirt”. Chi rivendica, chiunque sia, dichiara di aver usato due droni, di aver mirato a uccidere il presidente e di aver mancato l’obiettivo perché i droni riempiti di esplosivo sono stati colpiti dai militari di guardia. Per le modalità rudimentali e il tipo di rivendicazione, si tratta di un attentato molto insolito, quasi una commedia grottesca. Anche nel giugno del 2017, un elicottero aveva lanciato bombe a mano sulla sede della Corte Suprema. Anche in quel caso l’opinione pubblica internazionale rimase sbalordita per un attentato tanto spettacolare quanto inefficace e la rivendicazione era giunta da un gruppo di militari di cui non si era mai potuta verificare l’autenticità. Subito dopo questo attentato, l’esponente dell’opposizione Haslar Inglesias (Voluntad Popular), dichiara: “E’ difficile credere che l’opposizione faccia un attentato, dal momento che non hanno mai fatto attentati di questo genere in 20 anni”. In un regime ormai solo apparentemente democratico, realtà e finzione si mischiano senza soluzione. Non sapremo mai, finché non si farà chiarezza con fonti indipendenti, se queste siano messe in scena, oppure gesti disperati di dissidenti esasperati.
Di reale c’è, purtroppo per i venezuelani, la vendetta e la repressione che segue questi eventi. Anche in questi giorni convulsi del dopo-bomba, Maduro annuncia “Giustizia! Massima punizione! Non ci sarà alcun perdono!”. I primi sei sospettati sono stati arrestati in giornata. Il ministro degli Interni li definisce semplicemente “terroristi e killer prezzolati”. Ma è l’occasione anche per puntare il dito contro i nemici esterni. La Colombia, prima di tutto, che Maduro stesso ha accusato di aver ordito questo complotto. E, ovviamente, anche gli Stati Uniti. Secondo il presidente venezuelano avrebbero agito contro di lui “gruppi finanziati da Miami”, patria degli esuli cubani, da sempre simbolo della lotta al comunismo in America latina. Sia il presidente colombiano Santos (che è di sinistra), sia il consigliere per la Sicurezza Nazionale americano Bolton, respingono le accuse al mittente. Bolton dichiara anche che l’attentato potrebbe essere “un pretesto creato dal regime stesso” per poter attaccare i nemici interni ed esterni.
Di sicuro, se il mandante è ignoto, il movente sarebbe più che comprensibile. Il Venezuela è precipitato e continua a precipitare ogni giorno di più nell’abisso di una crisi economica e sociale. La previsione dell’Fmi per la sua inflazione quest’anno è di 1 milione per cento, una cifra anche difficile da scrivere, difficile da immaginare. All’inizio del mese scorso, per comprare 1 kg di patate, servivano 5 milioni e 200mila bolivar, pari a un salario minimo mensile. Oggi costerebbero molto di più. Con la stessa cifra non era neppure possibile comprare una pizza. All’atto pratico, i venezuelani sono ritornati al baratto. Oppure usano criptovalute per comprare merci alla borsa nera.
Appena può, il venezuelano fugge per sopravvivere. E’ la più grande crisi di rifugiati del continente americano. Dopo un primo periodo di accoglienza facile, con la distribuzione di visti temporanei, la Colombia ha assistito, alla fine del 2017, a un’ondata di 90mila venezuelani al giorno che attraversavano il confine. Le autorità hanno sospeso la concessione dei visti temporanei e ha chiesto l’aiuto dell’Onu. Anche in Brasile sono decine di migliaia i venezuelani fuggiti e rifugiatisi nelle regioni del Nord, le più povere paradossalmente, ma non per gli standard a cui sono ormai abituati nel Venezuela di Maduro.