Macché Silvio, a far cadere Prodi furono i giudici
I giudici di Napoli hanno preteso di riscrivere la storia. Con questo teorema: a far cadere il governo Prodi nel gennaio 2008 fu l’ex senatore Sergio De Gregorio, peraltro reo confesso, passato in quei giorni dalle file del centrosinistra a quelle del centrodestra, dietro il pagamento di tre milioni di euro da parte di Berlusconi.
Una delle anomalie più gravi della nostra democrazia rappresentativa è la confusione tra i poteri, in particolare la frequenti e sistematiche invasioni del potere giudiziario nel perimetro della politica. Già prima di Tangentopoli molte sentenze sono entrate a gamba tesa nella fisiologica dialettica politica, alterandola e orientandola verso direzioni predeterminate. Tante pagine della nostra storia non sono quindi state scritte dalla volontà popolare, bensì da Procure smaniose di incidere in modo risoluto sulla vita del Paese. Secondo alcuni, la sentenza con cui è stato condannato martedì in primo grado dal Tribunale di Napoli l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si inserirebbe in questo filone di politicizzazione dei processi. Non è possibile dimostrarlo né è possibile dimostrare il contrario. Certo è che, al netto della naturale diversità di opinioni politiche, quel verdetto solleva dubbi di natura squisitamente giuridica e riavvolge il nastro di una discussione sul divieto di mandato imperativo, sancito dall’art.67 della nostra Costituzione.
I dubbi appaiono tanto più fondati quanto più nitido è il ricordo della fragilità dell’esecutivo Prodi del 2006, in bilico già nel febbraio 2007 (l’ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano lo rinviò alle Camere, sapendo che i parlamentari, pur di non andare a casa dopo neppure un anno di stipendio, l’avrebbero salvato) e nuovamente nel gennaio 2008, quando invece la fiducia gli fu negata. E perché cadde così prematuramente quell’esecutivo? Perché in realtà le elezioni del 2006 Prodi le vinse per 24.000 voti (peraltro contestati, tanto che il centrodestra denunciò brogli, soprattutto per quanto riguardava i voti degli italiani all’estero) e quindi con una maggioranza risicata e troppo eterogenea. Talmente eterogenea che molti ministri durante la settimana votavano i provvedimenti del governo e nel week-end manifestavano in piazza contro il proprio governo, contribuendo a destabilizzarlo e a togliergli credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.
Una schizofrenia comportamentale senza precedenti. Prodi passava più tempo a placare gli animi e le risse interne al suo esecutivo che non a governare. Ma in realtà un episodio fu determinante per la caduta del governo: il 24 gennaio 2008 l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella si dimise a seguito dell’inchiesta giudiziaria nella quale erano stati coinvolti lui e la moglie Sandra Lonardo. L’ennesimo governo terremotato da un’inchiesta. Al Senato, infatti, il governo Prodi non ottenne più la fiducia e si dimise. Questa è la storia ufficiale. Martedì i giudici di Napoli hanno preteso di scriverne un’altra. Il loro teorema è il seguente: a far cadere Prodi fu l’ex senatore Sergio De Gregorio, peraltro reo confesso, passato in quei giorni dalle file del centrosinistra (era stato eletto con l’Italia dei Valori di Di Pietro) a quelle del centrodestra, dietro il pagamento di tre milioni di euro da parte di Berlusconi. Per questo, il Cavaliere è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici.
Oltre che per la ricostruzione dei fatti prima ricordati, il verdetto di Napoli appare discutibile per ragioni di diritto, fermo restando che bisognerà comunque aspettare le motivazioni della sentenza. I finanziamenti a De Gregorio e al suo movimento “Italiani nel mondo” furono erogati alla luce del sole e in modo trasparente, così come altri finanziamenti concessi ad altri partiti che in quegli anni appoggiavano il centrodestra. De Gregorio ha preso quei soldi senza colpo ferire e a distanza di anni si è dichiarato corrotto, si è pentito, ha patteggiato venti mesi con la condizionale (pena inflittagli per l’accusa di corruzione) e ne è uscito. Ma, si chiedono in molti, si può costruire una condanna a un ex capo di governo esclusivamente sulle rivelazioni di un corrotto reo confesso? Visto che il 6 novembre tutto sarà prescritto e quindi la sentenza non produrrà nessun effetto (a meno che il Cavaliere, per sfidare la giustizia, non decida di rinunciare alla prescrizione), era proprio il caso di destinare tante risorse pubbliche a un processo privo di materiale probatorio ulteriore rispetto alle testimonianze di un pentito e di qualche protagonista della vita politica di quegli anni?
E poi c’è la questione del vincolo di mandato. Durante la legislatura, in soli due anni circa 200 parlamentari hanno cambiato casacca e alcuni di essi consentono tuttora di tenere in vita un governo peraltro non eletto dal popolo. Nessuna Procura, come è giusto che sia, si è mai sognata di indagare le ragioni di questi passaggi da un partito all’altro. Il parlamentare, come recita l’art.67 della Costituzione, esercita la sua funzione senza vincolo di mandato. Non deve rispondere delle sue scelte a chi lo ha eletto, ma deve servire la nazione in autonomia, valutando di volta in volta i passi da fare. Semmai saranno i suoi elettori, alla tornata elettorale successiva, a non rivotarlo, ove lo ritenessero un voltagabbana o un traditore.
Fin dal discorso di Edmund Burke agli elettori di Bristol (1774), si è tramandato nelle democrazie rappresentative questo concetto, che non è mai stato messo in discussione: gli eletti non hanno vincolo di mandato. E allora perché tanto accanimento soltanto sul caso di Berlusconi, visto che non è stato provato il presunto “patto corruttivo” con De Gregorio ma si è soltanto dato credito alle sue (spontanee?) confessioni?