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SENTENZA

Ma quali veleni, la Terra dei fuochi era solo fumetto

La Terra dei Fuochi? Dopo due anni di emergenza è oramai solo un innocuo fumetto. Nel senso che lo spaventoso incendio che bruciò l’intera economia di una regione non era che un racconto di fantascienza. Recitato da giudici, ambientalisti e giornali. A dirlo è la Cassazione che ha stabilito che la terra di Caivano non era affatto avvelenata.

Politica 12_12_2014
La "Terra dei fuochi" in Campania

In alcune regioni del Mezzogiorno è convinzione diffusa che ad appiccare gli incendi nei boschi siano le guardie forestali che così facendo si procurano lavoro a tempo indeterminato. Leggenda o no, è un fatto che nella zona napoletana di Caivano, la cosiddetta “Terra dei Fuochi”, a far divampare l’incendio fu la Guardia Forestale. Incendio, come metafora, si capisce, perché gli agenti si limitarono a sequestrare 40 ettari di terreno, giudicati avvelenati dalla scorie dei rifiuti speciali sotterrati dalla camorra.  Gli effetti di quel provvedimento risultarono più disastrosi di un incendio vero, con decine di milioni di euro di danni per tutta l’economia della Campania. La “Terra dei fuochi”, compresa nelle province di Napoli e Caserta, divenne essa stessa il simbolo del malaffare camorristico e del business delle eco mafie, amplificato dalle cronache apocalittiche dei quotidiani e dalla fanta-letteratura di Roberto Saviano. Chernobyl, in confronto, era nulla: da quei 40 ettari posti sotto sequestro il fuoco velenoso divampò in tutta la regione, riducendo in cenere coltivazioni, imprese agricole e allevamenti. 

Ricordate? I prodotti made in Campania furono marchiati con il teschio sulle ossa incrociate e cacciati fuori dal mercato. A farne le spese fu soprattutto la mozzarella. La grande distribuzione del Nord Europa rimandò a Napoli le bufalotte, la Corea e il Giappone ne vietarono l’importazione, l’embargo si estese agli altri prodotti, come pomodori e ortaggi tipici che venivano fermati ai confini della regione. Non solo, anche la scienza assecondò la deriva allarmistica e le panzane che uscivano dal sottosuolo campano per finire direttamente sui giornali. Piatto ricco mi ci ficco: inevitabile che insieme a reporter d’assalto e neo-romanzieri venuti da Gomorra sbarcassero in quella terra anche i giudici. La Procura di Napoli bloccò campi e prodotti perché, dati dell’Arpa alla mano, ritenne che vi fossero contaminanti pericolosi nelle acque usate per irrigare i terreni. Sostanze presenti in natura ma che a dire dei magistrati oltrepassavano le soglie di rischio. Tutte balle, con il senno di poi e l’ultima sentenza delle alte toghe, emessa il 19 settembre scorso, che ha spazzato via le precedenti. Il terreno è stato dissequestrato e dichiarato sano e di robusta costituzione, forse perché malato non lo è mai stato. 

Magra consolazione per agricoltori, artigiani e piccoli imprenditori per quasi due anni isolati e messi in quarantena come pericolosi untori. Rovinati da pm arrembanti che sopra la toga si mettevano il camice bianco per sproloquiare liberamente su floruri, manganese, arsenico e altri veleni che a loro dire si erano dati appuntamento in 40 ettari maledetti. Infischiandosene di studi e ricerche compiuti da scienziati e biologi veri che davano risultati tutt’altro che allarmanti. Infine, nel marzo scorso, le indagini conclusive coordinate da tre ministeri competenti, smontarono la grande bufala. Lo scrive Libero, il solo quotidiano nazionale a darne notizia: «il territorio inquinato, in Campania, corrispondeva al 2 per cento del territorio, dunque a meno dell’1 per cento del suolo agricolo».

Alla fine, anche per i campani, è arrivato un giudice. La Cassazione è intervenuta su uno dei 13 sequestri di Caivano, ma la sentenza fa giurisprudenza e allora anche gli altri fuochi saranno definitivamente spenti. Il tutto grazie alla tenacia di un imprenditore agricolo, impigliato, come altri, nella vicenda kafkiana: i suoi terreni erano etichettati come “avvelenati” mentre i prodotti agricoli risultavano perfettamente sani. Lui, però, Vincenzo Capasso, è passato al contrattacco: prima con il Tribunale del Riesame, poi con il ricorso in Cassazione. Che finalmente gli ha dato ragione. Happy end confortante e dovuto, ma il tragico zelo giudiziario e la criminosa gestione mediatica hanno lasciato sul campo morti e feriti.  Non è la prima volta che succede e, c’è da scommetterci, non sarà l’ultima. Andate a vedere cosa resta dell’Ilva  di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, dopo il sequestro giudiziario degli impianti. Da una media di utili che sfiorava i 100 milioni all’anno, Ilva è passata a perdite di 1 miliardo l’anno. L’azienda è stata condannata a fare bonifiche per 1,8 miliardi di euro e ora deve far fronte a richieste di risarcimento danni per altri 35 miliardi. 

Eppure, da questi immani disastri (economici ma non solo) organizzati per via giudiziaria, non tutti escono perdenti. Qualcuno s’è guadagnato un posto nel pantheon della magistratura militante, altri hanno avuto il loro mese di celebrità. Ancora meglio è andata ai capipopolo diventati star televisvi dopo l’assalto a discariche e forni inceneritori, a preti di strada e donpatricelli promossi al rango di disaster manager e opinionisti ambientali. Sempre pronti a sputare sentenze e ricette sui mali del mondo: dallo scioglimento dei ghiacci del Polo all’amianto dell’Eternit, alle ecoballe disseminate per l’Italia dalla camorra napoletana. Incendiari a tempo pieno, come quelle mitiche guardie forestali, per non rischiare di finire disoccupati.