Ma Obama lascerà governare Trump?
Obama cederà la Casa Bianca a Trump il prossimo 20 gennaio. Ma gli lascia in eredità una serie di patate bollenti e trappole accuratamente predisposte in questi mesi, in ambiti delicati e strategici, dal dossier degli hacker russi alla rottura con Israele. In questi otto anni, l'amministrazione Obama ha usato la macchina del governo federale come cosa propria, col pieno appoggio dei media. E non sembra intenzionata a cedere lo scettro.
Quando il candidato democratico Al Gore perse di un soffio le elezioni presidenziali del 2000, George W. Bush si insediò in una Casa Bianca vandalizzata. Tanto per fare un esempio: erano state rimosse tutte le lettere W dalle tastiere. Goliardia che rivela un certo modo di non saper perdere nel gioco democratico. Non si sa ancora che Casa Bianca si ritroverà Trump. Si sa già che il lascito dell’amministrazione Obama sarà ben peggiore di un semplice sabotaggio goliardico delle tastiere: due crisi diplomatiche appena cominciate e soprattutto una macchina del governo federale che è stata usata come cosa propria.
La crisi più recente è con la Russia. Già durante la campagna elettorale erano in corso le indagini di Fbi e Cia sull’attività di spionaggio di hacker russi volti a influenzare il voto negli Usa. In realtà gli hacker avrebbero cercato di penetrare nelle comunicazioni di entrambi i partiti. Il risultato finale è stato più a svantaggio del Partito Democratico: più informazioni “scottanti” sono uscite allo scoperto, contribuendo a danneggiare ulteriormente l’immagine di Hillary Clinton e della sua rete di sostenitori. A campagna ancora in corso, si parlava ancora poco di questo episodio. Ma subito dopo l’inaspettata sconfitta della Clinton, il caso degli hacker russi si è trasformato in una priorità nazionale. E’ comunque indubbio che 63 milioni di elettori americani non abbiano votato Trump perché convinti dagli hacker russi. Il modo canonico di procedere, quando c’è una violazione della sicurezza a questo livello è l’istituzione di una commissione di inchiesta oppure l’istruzione di un’inchiesta da parte di una commissione bipartisan già esistente in Congresso. I deputati e i senatori di entrambi i partiti, dunque repubblicani inclusi, si sono detti pronti a procedere in tal senso. Anche perché si tratta di una violazione della sicurezza nazionale, non di quella di un solo partito. Non sarebbe neppure il primo caso: già i sovietici provarono a rovinare la campagna elettorale di Ronald Reagan, senza riuscire a influire minimamente sul risultato. In quel caso ebbero anche un notevole appoggio all’interno della politica statunitense: fu il senatore democratico Ted Kennedy a chiedere al Cremlino di intervenire nelle elezioni, come provano i documenti dell’ex Urss.
In questo ultimo scorcio di presidenza Obama, in un periodo in cui, solitamente, al presidente uscente spetta solo il compito di gestire tecnicamente la transizione, l’amministrazione ha invece deciso di far scoppiare il caso Russia nel modo più clamoroso possibile: espellendo 35 diplomatici russi, chiudendo due proprietà in territorio statunitense che sarebbero state usate dai servizi di Mosca e annunciando nuove sanzioni contro nove fra enti e individui accusati di collusione con la rete di spionaggio. Dunque, un caso diplomatico, scoppiato fuori tempo massimo. Inutile dire che dovrà essere gestito dal successore, da Donald Trump. Da parte russa, Vladimir Putin è convinto nella promessa di amicizia del prossimo presidente degli Stati Uniti. Per questo ha deciso di non rispondere pan per focaccia, come suggeriva il Ministero degli Esteri russo e non ha espulso alcun diplomatico statunitense da Mosca. Non voglio “scadere ai livelli d questa diplomazia irresponsabile” è stato il commento di Putin. I tempi e i modi dell’intervento di Obama suggeriscono che la mossa sia più di ordine interno e politicamente motivata. Fbi e Cia non si stanno direttamente prestando al gioco, ma i risultati delle loro indagini sono usati per creare uno scandalo politico, per minare prima del tempo la legittimità del presidente eletto e suggerire un argomento forte per un eventuale impeachment.
L’altra crisi diplomatica che Obama lascia in eredità al suo successore è ancora pià grave, perché mina il rapporto di fiducia fra gli Usa e Israele. Rompendo una tradizione storica vecchia di settant’anni, gli Stati Uniti si sono astenuti in una risoluzione Onu che condanna Israele. Ma questo è solo l’aspetto formale. A livello informale, invece, pare proprio che sia stata l’amministrazione Obama a suggerire il testo della risoluzione e a discuterla in anticipo con i negoziatori dell’Autorità Palestinese. Lo riferisce una relazione egiziana, la notizia è stata ripresa da un programma televisivo israeliano e poi è rimbalzata sui media americani, ma solo quelli di “destra”. L’incontro sarebbe avvenuto il 15 dicembre, a Washington. Da una parte sedevano Susan Rice (consigliera per la Sicurezza Nazionale) e John Kerry (segretario di Stato), dall’altra Saed Erekat (capo negoziatore palestinese) e Ryad Mansour (inviato palestinese all’Onu). Nella discussione, sono i due interlocutori americani a definire “pericolosa” la prossima amministrazione Trump. Sottolineano il fatto che la sua intenzione di trasferire l’ambasciata statunitense in Israele a Gerusalemme, riconoscendola come capitale dello Stato ebraico, sia una rottura rispetto a tutte le amministrazioni precedenti. A domanda su quale possa essere la reazione palestinese, Erekat risponde in termini che non possono che essere definiti terroristici: l’Olp ritirerebbe il riconoscimento di Israele, scioglierebbe l’Autorità Palestinese (lasciando, di fatto, i terroristi a briglia sciolta) e chiedere ai paesi arabi di espellere gli ambasciatori degli Stati Uniti. A questa plateale dichiarazione di ostilità, Kerry e la Rice risponde con meri inviti alla prudenza. Ma anche con la promessa di fissare nuovi parametri nel corso della prossima conferenza di Parigi sul Medio Oriente, fissata per il 15 gennaio (5 giorni prima dell’uscita di scena di Barack Obama).
Questi colloqui avrebbero dovuto rimanere segreti. Se siano autentici o meno lo si capirà in futuro. Una prova della loro autenticità è l’astensione storica americana al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La prossima prova potrebbe essere costituita da cosa proporrà Kerry a Parigi, fra due settimane. Se fosse autentico (e non ci sono molte ragioni per credere che gli egiziani stiano mentendo)? Non sarebbe solo una patata bollente rifilata alla prossima amministrazione (come potrebbe essere il dossier degli hacker russi), ma è un modo per distruggere preventivamente la sua politica estera. Per di più in un settore molto delicato, quale è il Medio Oriente. Sarebbe anche un’ulteriore dimostrazione dell’uso disinvolto della diplomazia segreta da parte dell’amministrazione Obama.
Lo scandalo emailgate è l’esempio più lampante di quanto la diplomazia sia stata usata dai Democratici come un affare privato, personale. Il fatto che Hillary Clinton, mentre era segretaria di Stato, avesse trasferito le comunicazioni diplomatiche su un suo server personale, ne è la dimostrazione più lampante. Non solo è sbalorditivo il modo ben poco canonico (e assolutamente insicuro) di gestire la comunicazione di informazioni strategiche e sensibili: è sbalorditivo il silenzio delle istituzioni e degli organi di controllo. In campagna elettorale l’Fbi ha chiuso, poi riaperto e poi richiuso il caso, una serie di giravolte che parrebbe fatto su misura per garantire la protezione della candidata presidenziale democratica. E’ ancora tutto da valutare il ruolo della Clinton Foundation. Quanti e quali conflitti di interesse vi siano stati fra gli obiettivi della fondazione dell’ex presidente democratico (e della sua consorte candidata) e quelli della diplomazia nazionale americana. Già quel poco che emerge fa impallidire il tanto contestato conflitto di interesse di Trump con le sue aziende di famiglia.
Non solo la diplomazia, ma anche il fisco è stato usato come arma politica. Lo dimostra, anche qui, un altro scandalo, scoppiato all’alba della seconda amministrazione Obama: lo scandalo dell’Irs, l’agenzia delle entrate americana, che negava esenzioni fiscale ad associazioni non profit che ne avrebbero avuto il diritto, se queste erano conservatrici. L’Irs ha trattenuto la risposta alle richieste di esenzione fiscale solo per associazioni nei cui nomi c’erano le parole “Tea Party”, “Patriots”, o “9/12” (prima marcia del Tea Party) associate al movimento conservatore. Dal 2010 al 2012, come si è appreso nel 2013, solo quattro associazioni conservatrici hanno avuto luce verde per l’esenzione fiscale, mentre, nello stesso lasso di tempo, questa veniva garantita a decine di associazioni progressiste, nei cui nomi comparivano le parole “Progressive”, “Progress”, “Liberal”, “Equality”. Stando alle email interne all’Irs, era proprio una discriminazione effettuata sulla base dei nomi. Nel 2014 è anche emerso che, fra le organizzazioni già esistenti al 2010, l’83% di quelle “attenzionate” dall’Irs erano conservatrici. Quelle che sono state effettivamente sottoposte a controlli erano tutte conservatrici. Tutte, nel 100% dei casi.
Oltre alle istituzioni vere e proprie, c’è poi un altro potere, il quarto, che è diventato organico ai Democratici: i media nazionali hanno palesemente fatto campagna per Hillary Clinton, in più del 90% dei casi. Finora non hanno fatto altro che legittimare la gestione del potere da parte di Obama: un apparato costruito per prendere il controllo dello Stato e non mollarlo più. Non tanto per interesse economico, o per mera aspirazione (tutta politica) a conservare ed espandere il potere. Quanto per portare a termine una vera e propria rivoluzione culturale in America. Il partito Democratico, come è ormai evidente, è sempre meno un partito pragmatico e sempre più un partito ideologico, dominato dai caucus liberal e progressista. I quali non hanno solo un'agenda di riforme economiche e istituzionali, ma vogliono cambiare la cultura della popolazione americana, in senso laico e collettivista. I conservatori dicono che i Democratici vorrebbero "europeizzare" l'America. Hanno ragione, in questo senso: vogliono il controllo del governo federale sui singoli Stati, sulla società, sull'economia, sulle religioni, per promuovere solo la loro visione a senso unico della "tolleranza". Per questo è e sarà sempre più difficile che i democratici accettino la sconfitta, accettino di svolgere un regolare ruolo di oppositori e critici pur riconoscendo la legittimità del presidente Trump.