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EDITORIALE

Ma noi vorremmo discutere sul fondamento dell'educazione

Ancora una volta, all'inizio della scuola si sposta l'attenzione dall'ambito educativo a quello istituzionale e amministrativo. Come se il problema vero non fosse il modo in cui si affronta l'avventura scolastica. Quintiliano lo aveva spiegato chiaramente già duemila anni fa.

Editoriali 03_09_2014
Insegnante

Una volta ancora, si affrontano punti centrali della scuola in prossimità dell’inizio della scuola. L’attenzione, così, è spostata dall’ambito educativo a quello istituzionale, decisionale, amministrativo. Qual è, però, la vera sfida per noi insegnanti che tra qualche giorno torneremo in aula con i ragazzi? Nelle aule degli insegnanti, nei collegi dei docenti e nelle commissioni dovrebbero essere messi a tema questioni ben più importanti per l’inizio dell’anno: come si può iniziare l’anno con uno sguardo rinnovato e pieno di speranza, come augurare ai ragazzi un buon anno scolastico il primo giorno di scuola, come comunicare loro che studiare è bello e interessante? So che sorprenderò con queste affermazioni che magari saranno per molti impopolari. Vorrei, però, che le decisioni prese dall’alto non diventassero l’ennesimo alibi per iniziare l’avventura scolastica con scetticismo.

Forse, fa comodo pensare in questo modo e attendersi dall’alto e dalle istituzioni quel risveglio che in primo luogo spetta a noi. Si tratta del risveglio dell’io e dell’umano che nel tempo rimangono immutati. 

L’altro giorno ho incontrato una mia ex insegnante del Liceo, che ammiravo all’epoca per l’entusiasmo e il desiderio di insegnare e di stare con i ragazzi. Sono passati tanti anni ormai da quando ero studente di Liceo. Gli anni sono trascorsi anche per la professoressa che mi ha espresso tanta disillusione e tristezza per come vada la scuola. Quando le ho ricordato i tempi in cui era mia insegnante, mi ha risposto che allora era ancora giovane a livello anagrafico ed era piena di speranza.

Devo confessare che queste parole mi hanno riempito di tristezza. Siamo tutti destinati nel tempo a perdere la speranza e l’entusiasmo che caratterizzavano i primi anni di insegnamento? È solo questione di tempo e di età? L’esperienza di alcuni insegnanti più anziani di me mi infonde coraggio e mi permette di dire con certezza che si può affrontare con grinta e audacia l’avventura scolastica anche dopo parecchi anni di insegnamento. La giovinezza può, infatti, permanere nel cuore, anche quando l’età avanza, perché è una dimensione dello spirito, un atteggiamento del cuore. Ci sono cuori che vivono pieni di domanda e di attesa e altri che, già a vent’anni, non si aspettano più nulla.

Ada Negri è testimone che la facoltà di sorprendersi è l’atteggiamento proprio della giovinezza che può permanere nel cuore, anche in età matura. Ada Negri scrive, rivolgendosi alla gioventù: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo/ all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:/ senza fronda né fior, senza il lucente/ riso che avevi al tempo che non torna,/ senza quel canto. Un’altra sei, più bella» («Mia giovinezza»).

Questa giovinezza, non più accompagnata dall’appariscenza esteriore, è divenuta più consapevole e si è fortificata nel dolore, più capace di riconoscenza e di gratitudine, piena di speranza, fiduciosa e tesa a ciò che non inganna e non passa («Ami, e non pensi esser amata: ad ogni/ fiore che sboccia o frutto che rosseggia/ o pargolo che nasce, al Dio dei campi/ e delle stirpi rendi grazie in cuore./ Anno per anno, entro di te, mutasti/ volto e sostanza. Ogni dolor più salda/ ti rese: ad ogni traccia del passaggio/ dei giorni, una tua linfa occulta e verde/ opponesti a riparo»). Pensiamo che contributo potrebbe portare con la sua esperienza un insegnante non più giovane, ma che fosse consapevole di quanto scrive la poetessa.

Anche i fondamenti del rapporto educativo tra maestro e discepolo rimangono gli stessi. Ecco come duemila anni fa nell’Institutio oratoria Quintiliano descriveva i doveri del maestro nei confronti degli alunni: «Nei confronti dei suoi discepoli, il docente, anzitutto, assuma i sentimenti di un padre, e sia convinto di prendere il posto di quanti gli affidano i figli. Egli non abbia vizi e non li ammetta negli altri. La sua serietà non diventi cupa e la sua affabilità non sia sguaiata, affinché, a causa della prima, non gli venga antipatia e, a causa della seconda, scarso rispetto. Parli spesso di ciò che è onesto e di ciò che è bene: infatti, quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente punirà. Si adiri il meno possibile, ma non finga di non vedere i difetti da correggere, sia semplice nelle spiegazioni, resistente alla fatica, assiduo ma non eccessivo. Risponda volentieri a chi gli fa domande, di sua iniziativa interroghi chi non gliene pone. Nel lodare le esercitazioni degli allievi non sia né troppo stretto né troppo largo, poiché il primo atteggiamento rende noioso lo studio, il secondo genera eccessiva sicurezza. Quando corregge gli errori non si mostri aspro e offenda il meno possibile, perché il fatto che alcuni biasimino i ragazzi quasi come se provassero astio verso di loro ne allontana molti dal proposito di studiare».

Credo che nel mondo della scuola tutti gli insegnanti dovrebbero riflettere e meditare su queste considerazioni che Quintiliano solleva a partire dalla sua quotidiana esperienza dell’insegnamento. Quante volte, oggi come un tempo, una materia non viene comunicata agli alunni perché manca una posizione corretta da parte dell’adulto di porsi di fronte al ragazzo. Ogni docente si porrà di fronte alla classe con la sua personalità, le sue qualità, tutto il suo essere. Andrà salvaguardata la libertà dell’insegnamento che non significa totale arbitrarietà dell’insegnante. Vanno coniugate professionalità e umanità. Entrambi i fattori si devono compendiare, l’uno non ha efficacia piena senza l’altro. L’insegnante dovrà essere in grado di mantenere la disciplina, che non è il fine dell’educazione, ma requisito fondamentale e imprescindibile, punto di partenza perché possa instaurarsi un rapporto educativo. La mancanza di disciplina è uno dei problemi fondamentali nelle scuole di oggi. La disciplina non è una formalità, ma è una forma sostanziale, è il riconoscimento che vi è di fronte ai ragazzi una presenza autorevole che può comunicare qualcosa di importante. Il silenzio è, quindi, il riconoscimento che si è in una posizione di ricezione e di ascolto, non passivo.

Un rapporto educativo è sempre anche biunivoco e necessita della partecipazione della componente adulta e giovanile. Quintiliano non tralascia, quindi, i doveri degli alunni: «Dopo aver parlato tanto dei doveri dei maestri, voglio dire ai discepoli soltanto questo, di amare i maestri  non meno dei loro studi e di ritenerli genitori non dei corpi ma delle menti. Questo rispetto gioverà molto allo studio, perché, così, li ascolteranno volentieri e crederanno alle loro parole e desidereranno essere simili a loro». 

Le parole di Quintiliano potrebbero sembrare scontate e ovvie, ma sono, in realtà, il fondamento dell’educazione. Nella pratica quotidiana ci si rende conto che la componente dell’affettività, di cui parla il grande retore latino, non viene mai messo a tema nella scuola. Sempre più l’insegnante è definito come un facilitatore di conoscenze, a breve come un certificatore di competenze.

Ma come si può affrontare la questione dell’insegnamento se non si affronta quella dell’educazione? E come si può discutere di educazione se non si discute di cosa sia l’uomo? In realtà da questo confronto su cosa sia l’uomo si rifugge, certa come è la maggior parte delle persone che non vi siano una visione unica e una verità e che, quindi, ognuno debba tenersi la sua opinione. In questo clima di relativismo si pretendono, però, la collegialità e le scelte condivise. È un paradosso, perché vera democrazia e relativismo non possono convivere. Non può esistere, infatti, una condivisione di intenti senza la convinzione che vada cercata la verità.