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ECONOMIA

Ma l'Italia ha bisogno dei mercati finanziari

L'anno prossimo l'Italia dovrà raccogliere 325 miliardi di euro sul mercato. Per farlo deve riconquistare la credibilità.

Editoriali 10_11_2011
spread bund btp

Ma è giusto essere schiavi dello spread? E’ giusto guardare ai mercati finanziari per giudicare la politica di un Governo? E’ giusto farsi condizionare dalla speculazione delle Borse valori?

In questi giorni in cui l’Italia si trova nel mezzo di una difficile crisi politica e deve contrastare una oggettiva perdita di credibilità internazionale è più che naturale chiedersi fino a che punto è giusto preoccuparci dello scenario esterno e quanto sia invece necessario ritrovare una corretta gestione della propria sovranità.


Innanzitutto bisogna intendersi sulla parole. Lo spread a cui si guarda ormai ogni giorno è una differenza, in particolare ci si riferisce alla differenza tra i tassi di interesse che vengono pagati sui titoli di Stato emessi dalla Germania e quelli emessi dall’Italia. Nei primi anni dell’euro questa differenza è stata vicina allo zero: tra i vantaggi della moneta unica c’era stato infatti un drastico calo dei tassi di interesse sui titoli italiani perché la partecipazione dell’Italia all’euro era una garanzia contro i rischi di insolvenza.


Negli ultimi mesi, con l’aggravarsi della crisi di fiducia iniziando dalla Grecia, lo spread ha cominciato a salire: martedì 8 novembre nel momento più drammatico di incertezza politica, ha superato per la prima volta i 500 punti base, il che vuol dire un 5% di tassi di interesse in più sui titoli italiani.


Ma chi decide lo spread? Semplicemente il mercato, cioè la domanda e l’offerta dei titoli di Stato italiani. Chi acquista un Buono del Tesoro, anche se questo ha una scadenza lontana e sarà rimborsato solo tra dieci o vent’anni, può infatti metterlo in vendita in qualunque momento. Ora i Buoni del Tesoro poliennali hanno un tasso fisso deciso e accettato al momento dell’emissione e vengono venduti solitamente “alla pari”, cioè al valore ufficiale o “facciale”. Per esempio lo scorso anno il Tesoro italiano ha venduto titoli decennali a un tasso del 3% facendosi pagare mille euro per ogni titolo: se il signor Rossi che ha comprato questi titoli, che hanno ancora una vita residua di nove anni, si trova nella necessità di venderli può cederli al migliore offerente semplicemente facendo un’offerta in Borsa attraverso un intermediario che di solito è un istituto di credito. Ma il signor Rossi per trovare un compratore dovrà accettare un prezzo inferiore a mille perché nessuno li vuole più acquistare a quel prezzo (e nessuno peraltro può essere obbligato a farlo). Poniamo allora che il signor Rossi trovi un compratore disposto tuttavia a pagargli solo 800 euro per un titolo che nominalmente valeva (e varrà alla sua scadenza) 1000 euro. Chi acquista quel titolo si vede comunque riconoscere un interesse del 3% sul valore iniziale, ma questo interesse applicato al valore di mercato (quindi 800) si avvicina al 4%.


Quindi se salgono gli interessi di fatto vuol dire che diminuiscono i valori che vengono riconosciuti ai titoli di Stato italiano.


Ma chi è il signor Rossi che in questa fase decide di vendere? L’Italia ha 1900 miliardi di debito pubblico, cioè di titoli di Stato emessi via via negli anni per finanziare i deficit di bilancio, la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato. Questi 1900 miliardi sono posseduti per metà da istituzioni estere (banche, fondi pensione, società finanziarie, assicurazioni), per un terzo da istituzioni italiane e per il resto dalle famiglie italiane che hanno collocato in Bot, Cct e Btp i loro risparmi.


E perché possono decidere di vendere i loro titoli? Semplicemente perché pensano che nel futuro i prezzi siano destinati ancora a calare (e gli interessi a crescere) e quindi è meglio vendere oggi e accettare una piccola perdita che vendere domani e doverne subire una più grande. E’ chiaro che siamo di fronte ad una previsione che si autorealizza: se tutti vendono i prezzi non possono che continuare a scendere… e gli interessi a salire.


C’è della speculazione? Sicuramente sì, soprattutto perché su questi mercati sono ancora diffusi i titoli derivati che permettono di vendere oggi, e quindi ai prezzi di oggi, titoli che acquisterò in futuro a prezzi più bassi. Ma la speculazione ha facile gioco in momenti di difficoltà e di incertezza. Può giocare al ribasso, ma allo stesso modo potrebbe giocare al rialzo se le prospettive politico-economiche cambiassero sostanzialmente.


Il problema di fondo è che l’Italia ha bisogno come l’ossigeno dei mercati finanziari. Il prossimo anno dovrà raccogliere 325 miliardi di euro, tra rinnovi di titoli in scadenza e nuove emissioni rese necessarie dal permanere di un significativo deficit di bilancio. Il tutto aggravato da una sostanziale stagnazione economica e da una politica incapace di tagliare spese e sprechi.


Il vero problema quindi non è quello di fare a meno dei mercati finanziari, ma di convincere questi mercati a non fare a meno di noi. Ovviamente senza inchinarsi e criticandoli per i tanti problemi che pongono. Ma considerandoli sempre e solo uno strumento per far circolare il denaro. E un termometro della fiducia.