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LA CRESIMA NEGATA

Ma la cattedrale non è il luogo simbolo dell'antimafia

L'arcivescovo di Palermo, Paolo Romero, nega la Cresima in cattedrale al figlio del boss che ha fatto uccidere don Pino Puglisi. Motivo? "Inopportuno" che il ragazzo ricevesse il sacramento nello stesso luogo dove riposano le spoglie del sacerdote assassinato. Insomma, la cattedrale come luogo simbolo della lotta alla mafia.

Ecclesia 24_11_2014
Il cardinale di Palermo Paolo Romeo

La questione è vecchia come l’Antico Testamento dove due profeti vennero a male parole quando si trattò di decidere se le colpe dei padri potevano ricadere anche sui figli. Geremia, giustizialista ante litteram, non aveva dubbi: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Geremia 31, 29). Suggerendo così che le colpe dei padri ricadono sui figli. Per niente d’accordo, invece, il collega Ezechiele che furioso avverte gli israeliti di non ripetere più quel falso proverbio sull’uva perché «Ciascuno sarà giudicato in base alle proprie azioni. Mi fu rivolta questa parola del Signore: ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia». (Ez. 18, 1-13. 20-32). Insomma, è il Signore che giudica padri e figli perché solo a lui le vite appartengono e i peccati, come le virtù, non sono come il carattere: non si trasmettono mai per via ereditaria. Ciascuno è libero, dunque responsabile di quello che fa. Nel bene e nel male.

Certamente la pensa così anche l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo, ma deve aver giudicato per niente “opportuna” o del tutto sconveniente che il rampollo diciassettenne della famiglia Graviano ricevesse il sacramento della Cresima in cattedrale. Luogo dove riposano le spoglie di don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel ‘93 proprio per ordine del clan Graviano. Una decisione che ben ricorda la geremiade dell’uva acerba che “allega” la bocca dei figli, sia pur riveduta e corretta secondo il bon ton dell’antimafia dell’”opportunity correct”. «I figli non portano i pesi dei padri», si è subito affrettato a precisare l’arcivescovo, «ma bisogna pure pensare che in cattedrale riposano le spoglie di Puglisi ucciso da persone che non mi pare abbiano mai avuto segni chiari di dolore per ciò che hanno commesso».

Strana e grave considerazione questa, perché se davvero sua Eminenza aveva fondati sospetti che il cresimando fosse in qualche modo connivente con quell’orribile assassinio o lo condividesse, avrebbe dovuto non solo allontanarlo dalla cattedrale, ma negargli senza esitazione il sacramento. Ma così non è, dato che i responsabili del Centro ignaziano, scuola tra le più prestigiose della città che per un anno ha istruito il giovane insieme ad altri 49 cresimandi, giurano sulla sua serietà cristiana. «È stato preparato come gli altri», dichiara il rettore Francesco Tata, «quindi è stato giudicato idoneo alla Cresima. Abbiamo mandato l’elenco in Curia con tutti i nomi, per noi non c’era il problema del luogo». 

Dunque, il figlio del boss di Brancaccio aveva tutti i requisiti per ricevere il sacramento tanto è vero che la Cresima gli è stata amministrata, ma non in cattedrale come se la “vicinanza” con la tomba di padre Puglisi potesse innescare chissà quale infernale cortocircuito.  Il cardinale dice che la decisione è stata presa «non solo per tutelare la memoria di don Puglisi, ma per la delicatezza di chi si trova in questa situazione». E cioè, chi? Non certo di chi ha raccolto l’eredità spirituale del sacerdote assassinato, come Maurizio Artale, presidente del centro Padre Nostro che lavora nel nome di Puglisi, boccia la scelta della curia: «Questa non è la Chiesa dell’accoglienza che predica Papa Francesco, questo ragazzo è stato discriminato e don Pino non dava colpe ai ragazzi, sapeva quanto erano condizionati dall’ambiente». 

Parole forti, forse troppo, per condannare una scelta magari suggerita solo dalla paura di dispiacere a qualcuno o di essere frainteso dai media. È lo stesso arcivescovo ad ammetterlo: «I giornali dicono che non ho autorizzato la cresima in Cattedrale, ma nel caso opposto avrebbero scritto che la Chiesa era in connubio con la mafia». Il cardinale ha ragione: a dare retta ai giornali si ha sempre torto. Esplicito il riferimento alle polemiche esplose lo scorso settembre per il matrimonio della nipote del superlatitante Messina Denaro celebrato nella Cappella Palatinai. Dunque, una mossa suggerita dalla prudenza, un “no” che, pensava il cardinale, sarebbe stato certamente condiviso e applaudito dal fronte dell’antimafia e avrebbe evitato altre polemiche e accuse. Ma che si è subito rivelata per quello che è: una decisione pilatesca, infelice scappatoia del tipo “lontano dagli occhi lontano dal cuore”.  Non un grande esempio di coraggio evangelico e di esemplare metodo ecclesiale. La cattedrale è la casa di Dio, porto franco e aperto a tutti quelli che cercano con sincerità e pentimento l’incontro con il Signore. È luogo sacro che in nessun modo può trasformarsi in “luogo simbolo” della lotta alla mafia. 

Vabbè, non si può certo insegnare a un cardinale a fare il suo mestiere ma l’esclusione del figlio del boss dalla Cresima in cattedraale potrebbe far venire meno la certezza che nella Chiesa nessun uomo può essere considerato indegno e immeritevole dei doni di Dio. Che si è rivestito della nostra carne per farsi incontrare da tutti. A guardare bene, non era certo "opportuno" che Gesù sedesse a mensa con strozzini, gabellieri (i mafiosi del suo tempo) e prostitute, ma lui lo fece sollevando lo scandalo dei benpensanti. Se pure i ministri di Dio perdono la speranza, presumono di fare l’elenco di chi va accolto o lasciato fuori dall’Arca, beh forse qualcosa non gira nel verso giusto. E poi, non è raro il caso che questo “giustizialismo” clericale venga esercitato a senso unico. Via, siamo sinceri: ai padrini e madrine si chiede il certificato antimafia o la ricevuta del modello 730, ma su loro si chiude volentieri un occhio se sono divorziati, convivono o hanno i piedi in due o più famiglie. Allora, e solo allora, misericordia e accoglienza cristiane tornano improvvisamente in scena, perché alla fine un altare non si nega a nessuno. Semmai, alla gogna della scomunica ci va chi osa eccepire sulla compatibilità di questi “irregolari” con il ruolo di testimoni. 

Che cosa avrà suggerito a Graviano junior quell’esclusione, per “opportunità e convenienza”, dalla cattedrale e dal gruppo degli altri 48 amici cresimandi? Il ragazzo che ha sempre visto il padre attraverso i vetri del cosiddetto “41 bis”, il carcere duro che tuttavia non impedì al boss di passare una provetta a un suo avvocato in modo da consentire alla moglie l’inseminazione artificiale. In qualche modo, la Chiesa di Palermo ha condannato anche lui a un “41 bis” a ricevere la Cresima, lontano dagli altri: in isolamento. Giusto così? Padre Puglisi, ricordano a Palermo, non dava colpe ai ragazzi, sapeva quanto erano condizionati dall’ambiente e non ha mai negato a loro la comunione.

Questo è il nocciolo del suo insegnamento, oggi più che mai utile per capire il da farsi. Il sacerdote non sopportava la retorica dell’antimafia, lo sdegno limitato «ai cortei, alle denunce, alle proteste.  «Don Pino finisce nel mirino della mafia», ricorda l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione, «perché prete, per il suo ministero sacerdotale, e quindi alfiere di legalità e giustizia, ma anche e soprattutto convinto testimone della Parola di Dio e della forza del Vangelo. Proprio per questo fu inviso ai mafiosi, portatori di un ateismo materiale diventato esso stesso religione con al centro il dio del potere, opposto al Dio dei credenti».