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LA MISSIONE

Ma che vanno a fare i nostri soldati alla diga di Mosul?

La missione militare italiana a difesa della diga di Mosul è stato uno dei temi centrali nell’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il premier Matteo Renzi e il primo ministro iracheno Al-Abadi. Un faccia a faccia necessario a chiarire almeno alcune delle tante zone d’ombra in una missione italiana fortemente voluta dagli Usa.

Politica 11_02_2016
Soldati iracheni a guardia della diga di Mosul

La missione militare italiana a difesa della diga di Mosul è stato uno dei temi centrali nell’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il premier Matteo Renzi e il primo ministro iracheno Al-Abadi. Un faccia a faccia necessario a chiarire almeno alcune delle tante zone d’ombra in una missione militare italiana fortemente voluta dagli Stati Uniti, impegnati a convincere gli alleati a impegnarsi maggiormente sul fronte bellico contro lo Stato Islamico.

«Abbiamo parlato dei prossimi lavori di consolidamento della diga di Mosul, che sono assegnati alla italiana Trevi, leader mondiale nel settore. I due governi collaboreranno insieme per la sicurezza dell'area in chiave difensiva», ha detto il premier Matteo Renzi aggiungendo che «ne avevamo già parlato con Obama e siamo convinti di poter fare un ottimo lavoro con gli amici del governo iracheno in logica di totale condivisione e collaborazione». La nuova missione è motivata con la necessità di avviare urgentemente lavori di rafforzamento della diga di Mosul, la più grande dell’Iraq, che rischierebbe di cedere provocando ampie inondazioni. I lavori sono stati affidati all’azienda romagnola Trevi, peraltro l’unica a partecipare alla gara, che si è aggiudicata in gennaio un contratto da 200 milioni di dollari, cioè appena un decimo di quei 2 miliardi di dollari preannunciati da Renzi nel dicembre scorso a “Porta a Porta”.

L’invio di maestranze italiane nell’area della diga (si dice una quarantina di tecnici) richiede il dispiegamento di forze militari per proteggerli. Questa almeno la motivazione ufficiale. L’incremento ulteriore delle forze italiane in Iraq per difendere la dIga non sarebbe però solo quantitativo ma anche qualitativo. Finora l’Italia ha schierato 250 militari dell’Aeronautica in Kuwait per le operazioni sull’Iraq effettuate da 4 bombardieri Tornado e 2 droni Predator del tutto disarmati e impegnati in missioni “non letali” di ricognizione e sorveglianza. A questi si aggiungono 650 militari di Esercito e Carabinieri impegnati ad addestrare le forze curde e irachene a Erbil e Baghdad oltre a unità di forze speciali. In tutto 750 militari a cui si unirà presto un’unità elicotteristica per il recupero di feriti e dispersi composta da 130 militari dell’Aviazione dell’Esercito con elicotteri da trasporto NH-90 e da combattimento Mangusta che opereranno da Erbil a favore di tutte le forze alleate nella regione.

L’invio di quest’ultimo reparto anticiperà la partenza, in maggio/giugno, di un battaglione di fanteria meccanizzata (probabilmente bersaglieri della Brigata Garibaldi) con circa 450/500 militari che difenderanno l’area della diga attualmente lontana solo una decina di chilometri dal fronte che oppone le milizie curde ai combattenti dello Stato Islamico. Questi ultimi rinforzi che Roma invierà in Iraq, portando il suo impegno in quell’area a oltre 1.500 unità, sono costituiti da unità da combattimento con elicotteri da attacco e (si dice) persino artiglieria semovente con gli obici da 155 millimetri Pzh-2000.

Armi che poco si adattano alla linea politica mantenuta finora dall’Italia tesa a evitare il coinvolgimento in azioni belliche. Se è vero che gli elicotteri Mangusta (presenti anche in Afghanistan dove in più occasioni hanno aperto il fuoco contro i talebani) possono risultare idonei a scortare i velivoli da trasporto, l’eventuale presenza di artiglieria a lungo raggio sarebbe compatibile solo con la decisione di offrire supporto di fuoco ai curdi nell’offensiva su Mosul che dovrebbe prendere il via in estate. In ogni caso la presenza di reparti e mezzi da combattimento induca che gli italiani opereranno in prima linea e non nelle retrovie come è accaduto fino a oggi.Esattamente quello che vuole Barack Obama, che per l’impegno alla diga ha ringraziato sentitamente il presidente Mattarella in visita a Washington, ma forse non quello che desiderano tutti gli iracheni. «Abbiamo bisogno di accelerare l'arrivo della società Trevi e di garantire la sicurezza degli operai e dei tecnici» che lavoreranno alla diga di Mosul, «una questione molto importante per noi, perché è la fonte di acqua per tutti gli iracheni», ha detto ieri il premier iracheno Haider Al Abadi. Che ha pure espresso l’auspicio che altre aziende italiane lavorino in Iraq.

A Baghdad però non tutti sembrano condividere l’entusiasmo del primo ministro. Il ministro delle Risorse idriche, Mushsin Al Shammary, precisò il 20 dicembre scorso che l’Iraq «non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora». All’invio dei militari italiani si è intanto dichiarato decisamente contrario il leader radicale scita Moqtada Sadr, già uno dei protagonisti dell’insurrezione contro le truppe alleate d’occupazione nel 2004 (sue milizie uccisero e ferirono anche molti militari italiani nell’area di Nassiryah tra il 2004 e il 2006) affermando che «l’Iraq è diventato una piazza aperta a chiunque voglia violare i costumi e le norme internazionali».

Il presidente della Commissione Difesa del Parlamento iracheno, il “sadrista” Hakim Zamili ha definito «irragionevole e illogico» il dispiegamento dei militari italiani a difesa dei lavori di manutenzione della diga di Mosul, nel governatorato settentrionale di Ninive. «Abbiamo davvero bisogno dei combattenti italiani?» si è chiesto due mesi or sono Zamili in un comunicato, affermando che le forze irachene sono in grado di proteggere la struttura da sole. Zamili ha ricordato che «la mancanza di coordinamento con il governo regionale del Kurdistan» ha permesso l’ingresso «di truppe turche nei campo a Zlican e Bashiq, nell’area di Mosul». E il governo iracheno non è ancora riuscito a indurre Ankara a ritirare le sue forze. Il portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, Jafaar al-Husseini, aveva detto chiaramente che «qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata una potenza occupante a cui dobbiamo resistere».

Difficile comprendere se il premier al-Abadi abbia fatto cambiare idee ai leader sciiti che guidano le milizie scite, attualmente il più potente strumento militare iracheno, ma di certo gli italiani che si schiereranno alla diga non dovranno guardarsi solo dall’Isis ma anche dalle tante milizie locali. Il dubbio che circa questa missione si sorvoli su molti dettagli è confermato da molti elementi. Oltre alla  già citata struttura da combattimento del contingente va rilevato che anche l’urgenza dei lavori di ristrutturazione della diga non sembra essere poi così impellente per Baghdad. A fronte dei continui allarmi per il possibile cedimento dell’infrastruttura lanciati dagli statunitensi, nei giorni scorsi il ministro al-Shammary ha detto che  «tali previsioni sarebbero corrette se la quantità di acqua nel bacino fosse al massimo, mentre attualmente è solo a un quarto». Una situazione dovuta alla carenza di piogge e alla riduzione della quantità di acqua lasciata passare dalla Turchia negli ultimi due anni.

Sulla base dei risultati raccolti al-Shammary e altri quattro ministri hanno presentato al governo un rapporto in cui non si fa alcun riferimento a un possibile imminente crollo e ha confermato che l'appalto assegnato alla Trevi prevede di «aumentare e rafforzare» le iniezioni di cemento nelle fondamenta e di riparare un'apertura di scarico che serve a ridurre la pressione dell'acqua sulla diga in caso di emergenza. Quindi lavori limitati come dimostra anche l’importo stanziato. In termini di sicurezza non convince poi la necessità di schierare un battaglione meccanizzato con carri armati, artiglieria ed elicotteri per protegger 40 tecnici da una minaccia che al massimo potrebbe essere costituita da azioni terroristiche considerato che una controffensiva in grande stile dell’Isis in questo settore pare da escludere. 

Perché allora non assegnare la protezione dell’area e del personale del cantiere a forze curde, a contractors o a un piccolo reparto specializzato nella protezione ravvicinata? In questo modo si ridurrebbero pure i costi dal momento che schierare il contingente militare previsto alla diga per un anno costerà ai contribuenti italiani di più dei 200 milioni di dollari che Baghdad pagherà alla Trevi per i lavori.