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L'EDITORIALE

L'uso improprio della Costituzione

I continui interventi del Capo dello Stato mettono in luce una inquietante visione "giacobina". E non è un caso che dai richiami di Napolitano restino esclusi alcuni valori fondativi della Costituzione, come la famiglia e la libertà di educazione.

Editoriali 04_10_2011
costituzione

Nessuno vuole mettere in cattiva luce la Costituzione come Carta fondamentale della nazione italiana, cioè come “vestito” che dal 1948 viene indossato dal popolo italiano. L’Italia ha tanti problemi da risolvere prima di affrontare un discorso serio e profondo su che cosa è e cosa non può essere una Costituzione. Tuttavia, l’uso improprio e addirittura violento della Costituzione deve mettere in guardia. Quando il rispetto verso la Carta costituzionale diventa “patriottismo costituzionale” bisogna insospettirsi.

Il termine viene da lontano e nasce in particolare nel mondo del cattolicesimo democratico, un milieu che contribuì alla stesura del compromesso ideologico con il mondo comunista realizzatosi durante i lavori dell’Assemblea costituente e che sta alla base della Carta del 1948. Niente di male, se non si poteva fare di meglio, e se quel patto permise all’Italia la ricostruzione economica e sociale durante gli anni Cinquanta, anche se bisogna almeno ricordare le elezioni del 18 aprile 1948 e i successivi governi centristi, dai quali gli artefici del compromesso costituente, i comunisti e con loro i socialisti, saranno esclusi.


In nome del patriottismo costituzionale, negli ultimi due anni, è stato proposto di sostituire l’educazione civica nelle scuole con l’insegnamento di una materia tipo “Cittadinanza e Costituzione”, così come di far sostenere l’esame di Costituzione agli aspiranti cittadini. In nome della Costituzione minacciata, il monaco don Giuseppe Dossetti (1913-1996), nel 1994, uscì dal suo convento per dare vita ai Comitati in difesa della Costituzione. In nome della Costituzione, il capo dello Stato ha recentemente detto che la “Padania non esiste”, quasi che la Costituzione fosse il criterio storico di riferimento per stabilire il diritto o meno di un popolo di imboccare un percorso istituzionale diverso da quello presente.


Ora, questi discorsi fanno paura. Essi lasciano trasparire un modo di pensare “giacobino”, dove non esistono più regole legate alla natura dell’uomo, “data” e non “stabilita” da volontà umana, per cui la legittimità, cioè la conformità al vero in natura, è molto più importante e fondativa della legalità, come ha spiegato il Papa nel recente discorso al Parlamento federale tedesco.


E la paura trova conferma nell’uso ideologico della legalità. Mai ci capita di ascoltare le massime cariche dello Stato difendere la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, istituzione fondativa anche per la nostra Costituzione, né preoccuparsi per la deriva verso una ideologia del gender che attraversa la nostra società - e anche alcuni ministri dell’attuale governo - e che punta al riconoscimento del matrimonio gay e alla possibilità dell’adozione di figli da parte di coppie omosessuali. Ci piacerebbe se il Presidente della Repubblica spendesse la sua autorevolezza anche verso i tanti volontari pro-life che spendono il loro tempo per salvare esseri umani innocenti dall’omicidio-aborto, e non soltanto per celebrare le azioni ritenute meritorie di Marco Pannella e del suo Partito radicale; così come ci piacerebbe se venissero spese parole, almeno parole, per restituire ai genitori il diritto di scegliere la scuola per i loro figli senza dover pagare una ulteriore tassa.

Tutto questo non accade, anche se si può sperare che possa accadere un giorno non troppo lontano.

Tuttavia è la cultura che sta dietro questo modo di interpretare le istituzioni e le Costituzioni che appare inquietante. Quel metodo che ha fatto dire a Benedetto XVI che se la legalità fosse l’unico criterio di verità non ci sarebbero stati i combattenti della resistenza contro i regimi nazionalsocialista e quelli totalitari comunisti. E’ il metodo che si ispira al positivismo giuridico, del quale il Pontefice ha messo in luce l’errore, senza peraltro negare i contributi positivi che ha portato. Un errore grave e profondamente diseducativo, perché porta a negare il valore della legalità e della stessa Carta costituzionale.

Se non c’è una legge naturale, infatti, la legge positiva non trova alcun fondamento che non sia la legge del più forte o quella della maggioranza. Se non c’è una storia, una identità originaria, le radici di un popolo non possono aggrapparsi soltanto a un testo frutto di un compromesso fra forze politico-culturali (il Pci e la Dc) che, tra l’altro, oggi non esistono più.

Questo vuole essere un contributo a riflettere, e un grido d’allarme. Non si vuole mettere in discussione l’unità del Paese, né si vuole fare a meno della Costituzione. Ma si vuole soltanto ricordare che i motivi per stare insieme, per rispettare le leggi, gli italiani le troveranno soprattutto altrove: in quella legge e in quella costituzione non scritte dagli uomini, ma radicate nella natura e nella storia, in quella storia che spesso, a scuola, non ci fanno mai studiare