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USA

L'università di Trump reintroduce il merito, ma è solo per americani

Dopo l'assassinio di Charli Kirk, avvenuto in un'università, una riforma del settore diventa ancora più urgente. Il progetto di Trump mira a de-radicalizzare accademie ormai in mano all'estrema sinistra. Ma esclude quasi del tutto gli stranieri.

Educazione 08_10_2025
Harvard (La Presse)

Negli Usa, su tre aspetti la politica dell’amministrazione Trump sta procedendo con l’acceleratore: la prima è l’immigrazione, la seconda è l’ordine pubblico nelle città, la terza è l’istruzione. Se i primi due problemi sono affrontati, in gran parte, con la forza militare, il terzo è molto più delicato ed è quello su cui si gioca il futuro, anche di lungo periodo, delle nuove generazioni di americani.

Dopo i primi bracci di ferro individuali, con l’università Harvard e con la Columbia, Trump sta elaborando una strategia generale per riformare le università. Un suo promemoria, il Patto per l'Eccellenza Accademica nell'Istruzione Superiore dell'Amministrazione, una sorta di testo unico per la riforma, è in parte trapelato alla stampa e in questi giorni se ne commentano già i contenuti.

Innanzitutto va detto che, a far da acceleratore per la riforma, è stato l’assassinio di Charlie Kirk nel cortile dell’Università di Utah Valley. Kirk era la voce fuori dal coro, il giovane conservatore che dai 18 ai 31 anni andava nelle accademie americane a dialogare con gli studenti, tutti, anche i più radicalizzati di sinistra, per cercare di dimostrare le fallacie logiche dei loro slogan ideologici. La sua uccisione, da parte di uno studente che si definiva “antifascista” è la prova che i nuovi progressisti, specie durante la rivoluzione woke, non tollerano un punto di vista diverso dal loro. E basta vedere la reazione degli studenti all’assassinio, con il 25% che lo approva, per capire quanto sia grave e dilagato il problema dell’ideologia estremista.

Non serviva un assassinio in un’università per capirlo. Il 2024 è stato l’anno delle occupazioni continue dei pro-Pal. In quel caso, docenti e studenti israeliani, ma anche ebrei americani, hanno avuto la peggio. Ed è proprio la loro discriminazione il motivo delle prime misure di Trump contro la Columbia e Harvard. Il 2020, anno del Covid e di Black Lives Matter, è stato un altro anno drammatico di occupazioni e di proteste universitarie, teoricamente “antirazziste”, ma di fatto contro chiunque non rientrasse nei canoni della sinistra radicale. E nel 2020 era già in corso, da almeno cinque anni, una vera rivoluzione culturale, la rivoluzione “woke”, con i suoi strumenti peggiori, quali la cancel culture (cancellare la cultura “bianca”), la “decolonizzazione” dei programmi di studio, anche nelle materie scientifiche e nella stessa matematica, e il de-platforming, cioè negare il diritto di parola ai conservatori o a chiunque non sia approvato dall’ideologia di estrema sinistra.

Questa rivoluzione non è una contestazione studentesca. Il problema parte dai professori e dai dirigenti universitari, incoraggiati a loro volta dalle due amministrazioni democratiche, Obama e Biden, che hanno caratterizzato gli anni ’10 e i primi anni ’20 e a cui la prima amministrazione Trump aveva già provato ad invertire. Obama, soprattutto, ha incoraggiato un ricambio generazionale nelle università usando l’arma dei fondi pubblici per orientare i programmi di studio in una direzione ultra-progressista.

Il promemoria di Trump, al contrario, specifica che le università aderenti al patto devono porre fine all’uso di preferenze razziali o di genere nelle assunzioni o nelle ammissioni al campus: ormai era la norma assumere per quota etnica o di genere, nel nome della “diversità”, a scapito soprattutto degli asiatici che, più bravi della media nelle materie scientifiche, si sono trovati penalizzati per far largo ad altre etnie.

Le università, inoltre, avranno un accesso più facile ai fondi pubblici se dimostreranno di abbracciare la cosiddetta neutralità istituzionale, in modo che le scuole non prendano posizione su questioni sociali e politiche estranee all'università. I ​​professori possono esprimere la loro opinione a titolo privato, ma non possono indottrinare gli studenti durante le lezioni. I corsi non devono avere un fine politico, come la “decolonizzazione” o la “lotta al cambiamento climatico” ad esempio.

Un altro cambiamento importante è amministrativo: le università devono rendere trasparenti i finanziamenti provenienti da istituzioni o individui stranieri. Dietro alle occupazioni pro-Pal del 2024 potrebbero esserci influenze del Qatar e dell’Iran. Non tanto nell’organizzazione delle proteste in sé, ma un’influenza di lungo periodo che ha condizionato e cambiato i programmi di studi, modellandoli secondo una visione del mondo terzomondista, compatibile con quella araba e islamica. Il promemoria incoraggia un “vivace mercato di idee”, contro quella che è una vera monocultura progressista.

Due però gli aspetti più controversi. Il primo è economico: congelare le rette universitarie per cinque anni. Ciò potrebbe provocare notevoli problemi alle università che vivono con i soldi delle rette. E poi, limitare al 15% la quota di studenti stranieri. Le più prestigiose università americane hanno già superato ampiamente quella quota (o 25% a Harvard, il 22% a Yale, addirittura il 55% alla Columbia) e si troverebbero costrette a respingere gran parte delle domande di iscrizione, rinunciando, anche qui, agli introiti delle loro rette.

Non è solo un problema economico: gli studenti stranieri sono stati spesso il sale della scienza e delle arti americane. È fondato il timore di agitatori che arrivano dall’estero per alimentare la protesta e il disordine: lo si è visto più volte nelle occupazioni del 2024, soprattutto nel caso del siriano-palestinese Mahmoud Khalil, arrestato in marzo ed ora pronto per essere rimpatriato in Siria, secondo una sentenza del 12 settembre scorso. Ma rinunciare, in generale, agli studenti stranieri, in nome di un rinnovato nazionalismo, non porterebbe benefici alla nazione americana.