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L'Unità non è in discussione, ma l'identità è da riconoscere

Il presidente Napolitano ha dato il via ufficiale alle celebrazioni per i 150 anni dello Stato italiano, che però rischiano di tagliare fuori una parte della storia di questo Paese. Urge soprattutto curare le tre ferite causate dal Risorgimento, che ancora frenano lo sviluppo del Paese.

Attualità 07_01_2011
napolitano
Il Tricolore è un simbolo unitario indicato nella Costituzione e deve quindi essere rispettato da tutti, ma ancor più da chi ha responsabilità di rappresentanza e di governo. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dando oggi da Reggio Emilia il via ufficiale alle celebrazioni ufficiali del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.  A Reggio, infatti, nel 1797, venne esposto ufficialmente per la prima volta il tricolore, la bandiera che ancora oggi rappresenta il simbolo dello Stato nazionale nato nel 1861, appunto 150 anni fa.

Napolitano ha sottolineato la necessità di ricordare la nascita dell’Italia senza indulgere  ad «una visione acritica del Risorgimento, ad una rappresentazione idilliaca; quel che è giusto sollecitare è un approccio non sterilmente recriminatorio e sostanzialmente distruttivo, un approccio che ponga in piena luce il decisivo avanzamento storico consentito all’Italia dalla nascita dello stato nazionale».
In questa prospettiva è bene ricordare le modalità delle origini in cui si colloca anche la vicenda del Tricolore.

Nel 1797 l’Italia conosceva gli inizi del processo risorgimentale che avrebbe condotto all’Unità. Era il cosiddetto ”triennio giacobino” (1796-1799), successivo all’invasione delle truppe francesi guidate, dal 1796, da Napoleone, che avrebbe dominato in Italia fino alla sconfitta del 1815. Oggi gli storici sono quasi tutti concordi nel riconoscere l’importanza del “lungo Risorgimento”, quello appunto cominciato con l’invasione francese, determinante per porre le basi della successiva rivoluzione italiana. Basi ideologiche anzitutto, ma anche umane e organizzative se pensiamo quanti ufficiali, politici, cospiratori fecero “gavetta” durante il ventennio per poi operare nei primi moti risorgimentali del 1820-21 e del 1830, aprendo così diverse “reti” di cospirazione che avrebbero appunto dato vita alle rivoluzioni del Quarantotto e poi del 1859.

Le celebrazioni cominciano in un periodo delicato della vita italiana. Il Bel Paese è in crisi, anzitutto di identità. D’altra parte il mito dell’Italia nata come Stato unitario nel 1861 non ha mai veramente convinto. Nel periodo liberale (1861-1922), l’Italia ufficiale dovette fare i conti con l’opposizione cattolica (il Paese reale) e quella socialista, che per motivi diversi non si riconoscevano nei fasti risorgimentali.

Dopo la Marcia su Roma, il regime fascista continuò a presentarsi come continuatore dello Stato nato nel 1861, pur cambiandone i connotati formali. Nel secondo dopoguerra, la Dc riportò i cattolici alla guida dello Stato, ma essa non volle mettere in discussione le caratteristiche anticattoliche del Risorgimento per il timore che prendesse corpo l’antica accusa che i cattolici erano ostili allo Stato unitario. Così la Prima Repubblica si resse su una sorta di compromesso fra il partito di ispirazione cristiana - che garantiva l’appartenenza dell’Italia alla alleanza occidentale e anticomunista - e il partito comunista, che egemonizzò l’opposizione in nome di una ideologia che non “doveva” governare un Paese a ovest della Cortina di ferro.

I cittadini di queste tre Italie, la liberale, la fascista e la repubblicana, non smisero di amare il loro Paese, ma non si innamorarono mai veramente dello Stato nazionale, forse perché capivano prima e meglio degli intellettuali che l’Italia esisteva da almeno un millennio e c’entrava poco con quello Stato nazionale nato con un processo che ha creato, e lasciato, almeno tre ferite.

Intendiamoci, bisogna distinguere l’Unità dal Risorgimento. La prima dobbiamo tenerla e anche custodirla. Sarebbe giacobino disfarsene in un momento di debolezza dello Stato, tanto più che ciò che tiene insieme gli italiani oggi sono proprio quelle realtà, oltre alla Chiesa cattolica, che esibiscono pubblicamente il tricolore: le forze armate, i carabinieri e la polizia, gli “azzurri” delle diverse discipline sportive. Così come lo Stato del 1861 ha purtroppo un debito nei confronti delle Repubbliche giacobine del triennio, oggi non bisogna ripetere lo stesso errore, disprezzando e sottovalutando un secolo e mezzo di vita comune.

Però dobbiamo chiederci su che cosa puntare per rilanciare questa identità italiana che stenta a nascere. Se partiamo infatti dalla nazione dei mille campanili, che poi è l’Italia reale, che cosa troviamo? Il campanile appunto, cioè le radici profonde di Paese cristiano. Ma anche il Comune, cioè l’aggregazione territoriale che unisce le famiglie di un borgo (che può diventare anche un grande borgo, la città) che ha messo al centro, nella piazza principale, proprio il campanile, accanto alla sede comunale.

Ebbene, questa Italia verrà ricordata nelle prossime celebrazioni? Verrà ricordata la ferita di Porta Pia, il caso di coscienza dei cattolici italiani dell’Ottocento, per ricordare un celebre libro del secondo dopoguerra che aveva proprio questo titolo e ricordava il conflitto interiore di tanti cattolici che amavano la patria, ma più ancora la Chiesa?  Certo, i cattolici sono rientrati nelle istituzioni, a partire dal Patto Gentiloni nel 1913 e poi durante la Grande Guerra, quando ci fu il primo ministro cattolico. Eppure, proprio per questo, perché non tenere conto che una ferita c’è stata, alle origini, non risolta completamente dal Concordato del 1929, una ferita che si riapre di fronte ai tanti conflitti culturali che tuttora dividono il Paese sui temi eticamente sensibili?

C’è da chiedersi se nelle celebrazioni ufficiali non poteva trovare posto un riconoscimento esplicito a queste radici, per esempio all’italianità del beato Pio IX, o del beato Rosmini.  E anche se cominciare le celebrazioni dallo scoglio di Quarto, il 5 maggio scorso, da dove partì una spedizione militare che aggredì uno Stato sovrano, il regno delle Due Sicilie, sia stato il modo migliore per affrontare la “ferita meridionale”, l’altra grande questione dopo quella cattolica e quella federalista che ancora rimangono aperte.

Sono domande senza la pretesa di avere risposte preconfezionate. Rivolte dalle pagine web di un quotidiano cattolico che è completamente d’accordo con lo sforzo della gerarchia della Chiesa nell’offrire un supplemento d’anima a un Paese in crisi d’identità. Ma l’identità presuppone la consapevolezza che qualcosa non è andato bene e che dalle ferite si può guarire, a patto che in qualche modo si cominci a curarle.