L'umiliazione della Corte Penale Internazionale
Kenya, l'ex presidente Uhuru Kenyatta è stato rilasciato dalla Corte Penale Internazionale. Il processo è archiviato perché il governo del Kenya non ha collaborato. Ed è proprio questo il tallone d'Achille del tribunale internazionale: funziona solo se i governi locali collaborano.
Da qualche giorno il Kenya è in festa. Il 5 dicembre la Corte penale internazionale, Cpi, ha annunciato di aver archiviato il processo contro il presidente Uhuru Kenyatta, indagato per crimini contro l’umanità per il suo presunto ruolo nell’istigare le gravi violenze post elettorali del 2007-2008 che causarono oltre 1.200 morti e circa 600.000 sfollati. “La notizia più bella del mondo” è stato il commento dei giornalisti di Kameme FM, l’emittente nazionale in lingua Kikuyu (l’etnia di Kenyatta, n.d.A.). Il presidente è “finalmente libero” scriveva in prima pagina il principale quotidiano, The Nation, che però intitolava un articolo successivo: “Uhuru ha usato lo Stato come scudo contro il proprio processo”.
Il fatto è che la Cpi si è vista costretta a rinunciare al processo per mancanza di collaborazione da parte del governo del Kenya. L’accusa rivolta alle istituzioni politiche kenyane dal procuratore generale della Cpi Fatou Bensouda è di aver rifiutato di consegnare il materiale necessario alle indagini più volte richiesto e di non aver adeguatamente protetto i testimoni che, minacciati e sottoposti a intimidazioni (si sospetta da parte di membri del governo kenyano stesso), uno dopo l’altro hanno ritrattato. Adesso, dopo la “vittoria” conseguita, il Ministro degli affari esteri kenyano Amina Mohamed ha detto che il suo governo tenterà di far cadere anche le accuse contro il vicepresidente William Ruto e altri personaggi minori, accusati come il presidente di crimini contro l’umanità.
La “liberazione” di Kenyatta ne rafforza la posizione all’interno dell’alleanza di governo che però potrebbe incrinarsi se il processo a Ruto, leader di un’altra etnia, non venisse a sua volta archiviato.
A uscire male dalla vicenda è invece la Cpi che, per la seconda volta da quando nel 2003 è diventata operativa, accusa una sconfitta, un duro colpo alla propria credibilità. Il primo glielo ha inferto il Sudan quando nel 2010 ha rieletto presidente Omar Hassan al Bashir dopo che la Cpi aveva emesso contro di lui un mandato internazionale di arresto nel 2009 con l’accusa di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità in Darfur, seguito nel 2010 da un secondo mandato essendo stata aggiunta alle precedenti l’accusa di genocidio. Da allora, non solo al Bashir guida incontrastato il suo paese, ma ha effettuato soggiorni all’estero senza essere arrestato e consegnato alla giustizia internazionale. Ha persino partecipato nel 2012 in Ciad alle nozze del presidente di quel paese, Idriss Déby Itno, invitato insieme a Ibrahim Gambari, all’epoca capo dell’Unamid, proprio la missione di peacekeeping istituita nel 2007 dall’Onu e dall’Unione Africana per proteggere le popolazioni del Darfur e consentirvi l’assistenza umanitaria: entrambi sono stati ripresi mentre si sorridono e si salutano calorosamente.
Vale la pena ricordare che la Cpi, che ha sede all’Aja, ha giurisdizione sovrannazionale su crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione commessi da individui, non da stati, sul territorio di uno stato membro (che ne ha cioè ratificato lo statuto costitutivo – attualmente sono 122) o, dovunque sia, dai cittadini di uno stato membro. Suo compito è perseguire gli autori dei crimini suddetti se e quando i paesi che dovrebbero farsene carico non sono in grado di agire o non intendono farlo. Una volta spiccato un mandato di arresto internazionale, gli stati membri sono tenuti a fermare ed estradare le persone incriminate qualora vivano o transitino entro i loro confini nazionali.
La nascita della Cpi, fortemente voluta in Italia dal Partito Radicale, era stata trionfalmente annunciata come un traguardo di portata storica per l’umanità. È singolare che i promotori non si siano resi conto di un punto debole dell’organismo, di rilevanza decisiva: vale a dire che la Cpi non ha modo di indurre i molti stati che non ne sono parte a collaborare e, in realtà, neanche di imporre alcunché agli stati membri. In altre parole può emettere mandati di comparizione e di arresto, ma non dispone di strumenti propri per farli eseguire. Se le persone incriminate non si consegnano spontaneamente, cosa che ancora non è successa, la Cpi dipende dalla volontà dei governi: che, almeno finora, hanno consegnato volentieri gli indagati se erano avversari politici – ad esempio, l’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, sconfitto militarmente dall’attuale capo di stato Alassane Dramane Ouattara con l’aiuto determinante della Francia, e Jean-Pierre Bemba, il più temibile avversario politico del presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila – ma non si affannano a tentare la cattura dei leader ribelli se questi si limitano a infierire sulla popolazione in aree remote dei loro paesi – è il caso, ad esempio, di Joseph Kony, capo del famigerato Lord Resistance Army, e dei suoi luogotenenti – e proprio non si sognano di consegnare i propri leader e i loro uomini di fiducia e di soddisfare le richieste della Cpi, come dimostrano i casi del Sudan e adesso del Kenya.
Il primo verdetto della Cpi risale al 2012, pronunciato contro un avversario del presidente Kabila, Thomas Lubanga, detenuto all’Aja, riconosciuto colpevole di crimini di guerra. Il secondo verdetto è del maggio scorso, emesso contro un altro leader congolese, Germain Katanga, anch’egli consegnato dal governo congolese alla Cpi.
In tutto dal 2003 la Cpi, il cui costo annuo di gestione nel 2014 è salito da 115 a 122 milioni di euro, ha aperto 21 casi, tutti contro cittadini africani, relativi a nove paesi anch’essi africani: il che ha indotto capi di stato africani, Unione Africana e Lega Araba a lanciare accuse di ingerenze indebite, razzismo e arroganza imperialista. Bisognerà vedere quali governi risponderanno alla richiesta del procuratore capo Bensouda di almeno condannare la mancata collaborazione del Kenya.