L'ultima Cena di Giovanni, che era vicinissimo a Gesù
Tommaso arrivò tardi, ma di fronte
a Gesù cadde il ginocchio. Senza l’incontro con la realtà del Dio vivente non si può cominciare a credere.
Nel Vangelo della IV domenica di Pasqua, Gesù, nel corso dell’ultima cena, cercando di preparare i discepoli all’addio imminente, risponde a due considerazioni di Tommaso e Filippo, la prima una domanda (Gv 14,5), la seconda una richiesta (Gv 14,8). Il Vangelo di Giovanni dedica ben cinque capitoli (su 21 complessivi) a ciò che Gesù disse nel corso dell’ultima cena, nella sera del nostro attuale giovedì, già in quel 14 nisan del calendario ebraico in cui il Cristo fu arrestato, processato, torturato, crocifisso e sepolto. Pensiamoci bene: cinque capitoli (dal 13 al 17) dedicati ad un intervallo di meno di 3 ore, quando solo altri due (il 18 ed 19) ci racconteranno, e minuziosamente, le 18 ore successive.
Molti sostengono che il Vangelo di Giovanni sia stato scritto molti anni dopo i fatti che racconta, che abbia un taglio teologico e che abbondi di simbologie rielaborate durante questi decenni. Accettando la sfida di questa ipotesi, scorriamo il testo cercandone gli indizi a sostegno o meno: dal capitolo 13 sono descritti i particolari dell’Ultima Cena che non contraddicono, ma integrano quelli dei sinottici. Le parole di Gesù non sono riassunte sotto forma di discorso teologico, di “canone” o elenco dei “punti chiave”, bensì, semplicemente e assai genuinamente, attraverso i dialoghi serrati tra i protagonisti.
Nel capitolo 13 c’è per esempio la lavanda dei piedi: frasi brevi, secche. C’è più l’aria del cronista o dello studente che prende appunti, sul posto, riportando le frasi udite, forse senza capire bene tutto, piuttosto che del teologo che scrive decenni dopo. Chiunque abbia verbalizzato una riunione può capire la differenza tra riportare anche solo una settimana dopo le frasi dei presenti, o appuntarsele al momento. E Giovanni in quel frangente era proprio vicinissimo a Gesù (Gv 13,23).
Non va dimenticato che Giovanni a quel tempo era giovane e che non doveva essere particolarmente istruito (in Atti 4,13 Luca lo scrive esplicitamente ). Il capitolo 13 si conclude con una dichiarazione di Gesù, fedelmente riferita (Gv 13,21). Era già notte (già passate le 21), quando Giuda lasciò la mensa ed uscì. Gesù a quel punto parla di un prossimo distacco. Un ulteriore scambio di battute con Pietro (Gv 13,36-38), anticipa quel che accadrà prima del canto del gallo.
Siamo arrivati al Vangelo di questa domenica: Gesù ha rimbrottato Pietro e l’ha messo comprensibilmente a disagio; e rincuora lui e gli altri: «Non sia turbato il vostro cuore… Abbiate fede…». Nelle nemmeno due ore che rimangono tra questo istante ed il trasferimento al Getsemani, Gesù parla intensamente con i discepoli. Giovanni ha come “assorbito” ogni parola e ce la trasmette nel dialogo che l’ha suscitata. Gli apostoli non sono certo rimasti lì distratti: si affastellano le domande, la tensione, la preoccupazione, forse la paura, i dubbi... Gesù spiega, riannodando i fili di quasi due anni di predicazione vissuti insieme, dal suo battesimo a quest’ora decisiva, più volte preannunciata.
Anche solo a leggere quel che riportano i capitoli dal 14 al 17, con un minimo di respiro e drammatizzazione scenica, si impiega una buona mezz’ora: è un rapporto standard tra le parole che si dicono in un’ora e gli appunti che riesce ad annotarsi un attento ascoltatore. Insisto: Giovanni non propone un trattato riassuntivo, ma dei dialoghi vivaci, nominando i protagonisti (Pietro, Tommaso, Filippo, Giuda Taddeo). Non indulge nella descrizione degli stati d’animo, non presenta un ordinato estratto teologico, ma offre come dei frammenti, quasi intravvedendo a tratti dei lampi di luce (il Consolatore, «vi lascio la pace, vi do la mia pace», la vite e i tralci, il comandamento dell’amore, l’odio del mondo, ancora il Consolatore, il ritorno, la disincantata disamina di Gesù sulla scarsità di fede in Gv 16,31, la preghiera finale), non senza qualche ripetizione.
Tommaso è il generoso apostolo che aveva detto: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11,10) prima di partire alla volta di Betania, dove Gesù aveva risuscitato Lazzaro. Qui, durante l’ultima cena, ha chiesto: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Dal Vangelo di Giovanni si sa che Tommaso fu assente quando Gesù apparve per la prima volta agli altri discepoli (Gv 20,19-23). Quando Tommaso si sente dire dagli altri: «Abbiamo visto il Signore» (Gv 20,25), risponde risoluto di non crederci. Gesù disse allora una frase divenuta famosa, che talora troviamo impropriamente tradotta usando il verbo al futuro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Il testo originale in greco usa però un tempo aoristo da tradurre usando il passato: «Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto» (Gv 20,29).
Tommaso si spinge fino a voler toccare ciò che altri avevano già visto; non ha creduto ai testimoni oculari, suoi amici. Non è che non abbia creduto ad un’idea, ma alla loro testimonianza diretta. L’imprecisione che può introdursi cambiando il tempo dei verbi può mutare il senso delle parole di Gesù, senza più riferirle a Giovanni (che scrive) e agli altri discepoli (già realtà), ma ai credenti futuri (in ipotesi). Giovanni infatti, entrato nel sepolcro vuoto, «vide e credette» (Gv 20,8). Non vide Gesù in persona, ma vide davvero quanto basta per credere. E’ questo Giovanni che rimanda quasi a memoria tutte le parole dell’ultima cena, il Giovanni che non è fuggito e stava con la Madre sotto la croce! Questo loda Gesù in chi ha “già” creduto, ha “visto” e lo afferma (Gv 20,25), senza pretendere prove così esagerate come quelle poste come condizione da Tommaso. Non è certo l’apologia di una fede priva di verifiche e tanto meno una questione da porsi soltanto 20 o 50 anni dopo i fatti di quel 33.
Perciò Gesù, appellandosi alla fede dei discepoli, conclude il Vangelo di questa domenica, in risposta questa volta a Filippo, raccomandando di aver fede, con il consiglio di non trascurare i fatti. «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse» (Gv 14,10-11). Perciò non fu rimproverato a Tommaso di aver voluto verificare toccando le ferite di Gesù, ma l’iniziale chiusura screditante la testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Tommaso nel Vangelo odierno dice di non conoscere la via e Gesù la via gliela farà toccare: la via è Lui stesso, compresa la via della croce, con le sue ferite.
Un’imprecisa traduzione dal greco può avvalorare un’interpretazione che suggerisce l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. Invece quella di Gesù non è la richiesta di una fede cieca, ma la beatitudine di coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire dai segni disponibili, credendo a testimoni affidabili: la fede della Chiesa. Il padre Ignace de la Potterie nota (in Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea) che Gesù, facendosi toccare le ferite da Tommaso, gli dice: «E non diventare incredulo, ma diventa credente» (Gv 20,27). Spesso lo troviamo tradotto con il verbo “essere” invece del verbo “diventare”. Tommaso infatti, otto giorni dopo la Pasqua, non era ancora ne’ l’uno ne’ l’altro. Scrivere: «E non essere incredulo, ma credente» svia un po’ dal testo originale, che suggerisce l’idea di un divenire derivante dall’incontro con Gesù risorto.
Senza l’incontro con la realtà del Dio vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo, Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Eliminando questo movimento, si sottintenderebbe che la fede consista in una decisione statica, da prendersi a cura dell’uomo. I primi annunciatori sono stati invece i testimoni oculari di un fatto. Il cristianesimo è diventato “anche” una religione, perché la notizia trasmessa riguarda il Dio già noto dalle Scritture, profetizzato ed atteso.
Al dunque Tommaso vede Gesù e sulla base di questa esperienza, rompe gli indugi. Se al diventare si sostituisce l’essere sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare per accostarsi alle sue piaghe; ma così sarebbe la fede a creare la realtà da credere. Al contrario è Dio a rivelarsi, ferite comprese. Tommaso alla fine per Giovanni è un grande teologo. La verifica gli varrà un lapidario: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Gesù non è solo il maestro ed il messia, ma è il Signore Dio.
La predicazione dei primi apostoli non è stata ricca di sapienti parole e di ardite pastorali, ma capace, pur nei limiti dell’umana fragilità, di segni portentosi, a merito di Dio e non delle loro capacità. Sono i segni a dare conferma alle loro parole (Mc 16,20). I fatti nella spiritualità e nella fede cristiana non sono un intralcio, degli intrusi o concessioni all’umana debolezza: fanno parte dell’incarnazione.