Luka ci racconta il martirio dei ragazzi di Garissa
La notte del 29 aprile alla fontana di Trevi, illuminata da fasci di luce rossa per ricordare i cristiani martiri, uccisi per la fede, ci sarà anche Luka Loteng, uno studente del Kenya. Luka parlerà dei 147 studenti universitari cristiani uccisi nel campus di Garissa, in Kenya, il 2 aprile 2015 dagli islamisti di al Shabaab.
La notte del 29 aprile alla fontana di Trevi, illuminata da fasci di luce rossa per ricordare i cristiani martiri, uccisi per la fede, ci sarà anche Luka Loteng, uno studente del Kenya. Aiuto alla Chiesa che soffre, la fondazione che ha organizzato l’evento, ha voluto che fosse uno dei quattro ospiti incaricati di aprire la serata raccontando altrettante storie di martirio.
Luka parlerà dei 147 studenti universitari cristiani uccisi nel campus di Garissa, in Kenya, il 2 aprile 2015. Quel giorno, di prima mattina, alcuni combattenti al Shabaab, il gruppo jihadista somalo legato ad al Qaida autore di molti attentati in Kenya, hanno fatto irruzione nel campus dopo aver ucciso le due uniche guardie armate che ne custodivano l’ingresso. «Andavano di stanza in stanza, di aula in aula, chiedendo ai ragazzi di dire se erano cristiani o musulmani. Alla risposta “si, sono cristiano” seguiva uno sparo»: hanno raccontato gli studenti sopravvissuti.
Tra i primi a rivelare che cosa stava succedendo all’interno dell’ateneo è stato Collins Wetangula, che si è salvato buttandosi da una finestra e poi mettendosi a correre disperatamente verso l’uscita. Stava per fare la doccia quando ha sentito i primi spari. Lui e tre suoi compagni si sono chiusi a chiave nella stanza in cui si trovavano. «Quando i terroristi sono entrati nel mio ostello», ha detto ai militari e ai giornalisti sopraggiunti, «li ho sentiti aprire tutte le porte una dopo l’altra e chiedere alla gente nascosta nelle stanze se erano musulmani o cristiani. I cristiani li hanno uccisi sul posto. A ogni colpo di fucile ho pensato che stavo per morire anch’io. Nessuno gridava, per paura di far sapere dove si trovava».
In tarda mattinata un portavoce di al Shabaab, Ali Mohamud Tage, aveva poi comunicato alla Bbc che in effetti i miliziani stavano separando gli studenti cristiani da quelli musulmani con l’intenzione di tenere in ostaggio i primi e lasciare andare i secondi, 15 dei quali erano già stati liberati. «I kenyani», aveva proseguito Tage, «saranno scioccati quando alla fine entreranno nell’università di Garissa». Aveva ragione. Alle forze dell’ordine entrate nel campus molte ore più tardi, dopo aver ucciso tutti i jihadisti, si è presentato uno spettacolo terribile: dappertutto cadaveri di ragazzi e ragazze, tutti cristiani. Il giovane Collins, come i 147 suoi compagni che uno dopo l’altro sono stati uccisi, evidentemente non aveva pensato neanche per un momento di provare a salvarsi negando di essere cristiano.
L’ateneo ha riaperto il 4 gennaio. Per l’occasione il vescovo di Garissa, monsignor Joseph Alessandro, ha celebrato una messa. Nell’omelia ha invitato i presenti a pregare per le vittime, per i loro famigliari e per la conversione degli assassini. Le lezioni sono riprese l’11 gennaio. Il campus adesso è dotato di migliori misure di sicurezza. Ma solo gli studenti locali, musulmani come la maggior parte degli abitanti della regione, sono tornati. 650 studenti residenti in altre parti del Paese e perlopiù cristiani preferiscono proseguire gli studi in atenei più sicuri. Agli studenti di Garissa i jihadisti non hanno dato scampo. Ad altri cristiani è stato offerto di poter vivere, a condizione di convertirsi all’Islam, e hanno scelto la morte.
Antoine, ad esempio, un giovane siriano di 21 anni, studente di ingegneria. Nel 2014, quando la città siriana di Maloula è stata presa da Jabhat al Nusra, Antoine e due altri ragazzi cristiani si erano nascosti in una casa. Ma i jihadisti li hanno scoperti, hanno ucciso i due ragazzi e poi a lui hanno imposto di convertirsi per non fare la stessa fine. Antoine ha rifiutato ed è stato ucciso. Dei testimoni affermano che le sue ultime parole sono state: «sono nato cristiano e morirò cristiano». Anche ad Asia Bibi, arrestata in Pakistan nel 2009, giudicata colpevole del reato di blasfemia per aver offeso il profeta Maometto e condannata a morte per impiccagione nel 2010, è stato proposto di abiurare e convertirsi all’Islam per salvarsi.
Lo ha raccontato lei stessa in una lettera scritta nel 2012, indirizzata a quanti nel mondo si stavano mobilitando per lei: «un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nella mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’Islam. Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. “Sono stata condannata perché cristiana” – gli ho detto – “credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”».
Asia Bibi è madre di cinque figli: «sono sposata con un uomo buono, abbiamo cinque figli, benedizione del cielo», si legge nella stessa lettera, «voglio soltanto tornare da loro, vedere il loro sorriso e riportare la serenità. Penso alla mia famiglia, lo faccio in ogni momento e chiedo a Dio misericordioso che mi permetta di tornare da loro». Ma sono trascorsi quattro anni e Asia Bibi è ancora in carcere.