L'Onu a Durban accese la miccia
Poche ore prima dell'attentato alle Torri Gemelle, la conferenza delle Nazioni Unite in Sudafrica accusa l'Occidente di imperialismo.
Le Nazioni Unite sono da tempo terreno d’azione di forze antagoniste all’Occidente cristiano, interne ed esterne ad esso. Mai era stato così evidente come nel 2001 a Durban 1, la prima conferenza ONU sul razzismo. Tra gli applausi scroscianti di 15.000 delegati, in rappresentanza di 160 paesi e di oltre 3.000 ONG, l’allora presidente del Sud Africa, Thabo Mbeki, il 31 agosto, nel discorso d’apertura, aveva affermato che lo schiavismo, il colonialismo e il razzismo europei e americani sono responsabili della povertà che affligge oggi “le persone brune o nere”.
Applausi avevano poi accolto Fidel Castro: “il mondo ricco e sprecone può e deve pagare perché si è arricchito con gli sporchi guadagni derivanti dal traffico di esseri umani”; il presidente del Rwanda, Paul Kagame: “i mali dell’Africa? La colpa è tutta dell’Europa”; quello del Burkina Faso: “il commercio degli schiavi ha distrutto le risorse umane africane…nel XVI secolo non esisteva tanta differenza tra l’Europa e l’Africa: questa differenza è profonda oggi a causa dell’eredità del colonialismo e dello schiavismo che hanno aiutato a costruire le economie occidentali. Questa generazione del mondo occidentale è la vera beneficiaria dei crimini ed è per questo che deve pagare”.
Alla luce degli eventi successivi, gli applausi di Durban acquistano un significato sinistro e ancor più l’agenda dei lavori del summit e il contenuto del documento finale proposto all’Assemblea per il voto. Come si ricorderà, il compito di organizzare Durban 1 era stato affidato alla Commissione per i Diritti Umani – in seguito sostituita con il Consiglio per i diritti umani – presieduta dall’Alto Commissario Mary Robinson. A tal fine, nel corso degli incontri preliminari svoltisi a partire dalla primavera, i suoi componenti avevano elaborato un testo da usare come piattaforma per la stesura dei documenti programmatici della Conferenza e avevano preparato un’agenda degli argomenti da trattare, avvalendosi della collaborazione delle ONG invitate a partecipare ai lavori.
Dal punto di vista della lotta alla discriminazione razziale e all’intolleranza, i testi non aggiungevano nulla a quanto già proclamato e intrapreso negli oltre 50 anni trascorsi dalla pubblicazione della Carta universale dei diritti umani. Sarebbero tuttavia stati approvati dall’Assemblea della Conferenza se, confidando nel sostegno della maggioranza dei paesi rappresentati a Durban e in quello dell’opinione pubblica mondiale, non vi fossero stati inclusi alcuni paragrafi a causa dei quali il summit ha rischiato di essere interrotto e si è risolto sostanzialmente in un fallimento. Nel testo ONU il sionismo era equiparato a una “forma di razzismo” e Israele era accusato di politiche razziali discriminatorie nei confronti dei palestinesi. In quello presentato al forum delle ONG Israele veniva definito “Stato razzista colpevole di atti di genocidio” e il popolo palestinese era esplicitamente autorizzato a reagire con qualunque mezzo.
Il secondo punto controverso riguardava l’accusa rivolta agli Stati occidentali, e in particolare ai membri del G7, di essere “plasmati da secoli di razzismo”, all’origine dello schiavismo e dell’imperialismo europei. Si voleva quindi che i paesi denunciati riconoscessero di essersi macchiati di crimini contro l’umanità, esprimessero rincrescimento, porgessero scuse ufficiali per i danni materiali e morali arrecati e ammettessero di dover risarcire sia i discendenti degli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi sia i paesi africani danneggiati dallo schiavismo e dalla colonizzazione europei. Gli Stati Uniti per primi avevano reagito, nelle settimane precedenti all’incontro, dichiarando di non essere disposti a parteciparvi a quelle condizioni. Quindi avevano inviato a Durban una delegazione di basso profilo di cui non faceva parte l’allora segretario di Stato, Colin Powell. Infine il 3 settembre, ritenendo impossibile il dialogo, avevano richiamato in patria i loro rappresentanti e altrettanto aveva fatto Israele.
In un certo senso è quella la data che segna una svolta storica, il punto di non ritorno: a cui poche ore dopo avrebbe fatto seguito l’attacco di al Qaeda agli Stati Uniti. Nei giorni successivi anche i paesi dell’Unione Europea e quelli aspiranti a diventarne membri esprimevano l’intenzione di ritirare le loro delegazioni se il testo non fosse stato modificato. Dopo lunghe discussioni – alcuni paesi arabi e islamici minacciavano di non approvarlo se fosse stato tolto il riferimento a Israele – i paragrafi controversi venivano cancellati e la dichiarazione e il piano d’azione venivano approvati dall’Assemblea della Conferenza. È da escludere che anche uno solo dei 15.000 delegati riuniti a Durban non abbia capito il significato dei paragrafi contestati e le intenzioni di chi li aveva proposti. Questo significa che una volontà non di giustizia, non di far bene, ma invece di attaccare l’Occidente e di preparare il terreno ad altre sfide ha animato la Conferenza e i suoi protagonisti. Lo provano le stesse reazioni alla partenza della delegazione americana, definita coralmente una “fuga”, un modo poco onorevole di sottrarsi a una situazione molto “imbarazzante”: come se non fosse nota la posta in gioco.
Quali fossero gli obiettivi reali del summit è confermato dal fatto che Israele è stato l’unico paese accusato di razzismo e discriminazione in un documento per il resto vago e generico, palesemente preoccupato di non urtare governi e popolazioni responsabili di violare i diritti umani. Le organizzazioni indiane di ispirazione cristiana e la Commissione nazionale indiana per i diritti umani, ad esempio, avevano chiesto invano, per mesi, che il sistema delle caste fosse incluso nelle forme di discriminazione da condannare nell’ambito della Conferenza. La replica dell’India – “quello delle caste è un problema sociale indipendente dall’appartenenza etnica, quindi non è di pertinenza del summit di Durban” – era stata accettata dalla segreteria del vertice, malgrado l’evidente pretestuosità. Allo stesso modo, anche ammettendo un fondamento alle rivendicazioni degli eredi degli schiavi africani, è significativo che la richiesta di scuse e di risarcimenti finanziari sia stata rivolta solo ai paesi occidentali.
A Durban non si è parlato, neanche per una parvenza di onestà, di esigere espressioni di pentimento e compensi economici dalle popolazioni arabo-islamiche che prima dell’Europa hanno colonizzato l’Africa e vi hanno condotto per oltre un millennio un traffico di schiavi a cui si deve la perdita di altrettanti uomini quanti furono quelli portati nelle Americhe dai negrieri europei.