L'omicida reo confesso in tv segna la morte del giornalismo
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Lorenzo Carbone ha ammesso: ha ucciso sua madre. Ma lo ha fatto davanti alle telecamere di Mediaset, che ha poi trasmesso la confessione choc. La sofferenza umana è diventata un prodotto commerciale.
Quando si parla di crisi del giornalismo si suole identificare tra le sue cause l’avvento della Rete, che avrebbe prodotto il crollo delle vendite dei giornali e del pubblico radiotelevisivo, quasi che i giornalisti fossero incolpevoli di fronte a questo andazzo. In verità, ad un’analisi più attenta, si deve ammettere che la progressiva sostituzione dei tradizionali mezzi d’informazione con i canali social risponde certamente a una semplificazione superficiale del rapporto tra giornalismo e società ma ha anche, anzi soprattutto, radici ormai ben solide nella degenerazione voyeuristica dell’informazione, che anziché raccontare la realtà applicando i principi giuridici e deontologici del diritto di cronaca preferisce sempre più spesso spiarla dal buco della serratura o drammatizzarla per pure finalità di audience.
La rappresentazione macabra e senza filtri di efferati delitti sembra diventata la missione principale del giornalismo di cronaca, che si accanisce in modo morboso sui particolari più violenti e angoscianti, enfatizzando le passioni negative e puntando ad attirare l’attenzione del pubblico sui particolari più degradanti e perversi.
Credevamo che il punto più basso di questa degenerazione del giornalismo italiano si fosse toccato in occasione della divulgazione dei colloqui riservati tra Filippo Turetta e suo padre, che era andato a trovarlo in carcere. Ci sbagliavamo, purtroppo. Ormai si è spostato ancora più avanti in modo audace e spregiudicato il limite della narrazione di vicende di cronaca nera, perché addirittura si punta alla confessione in diretta dell’assassino. Manca soltanto il racconto in diretta di un omicidio, dopo di che potremo celebrare le esequie del giornalismo professionale e consacrare definitivamente il genere dell’informazione-show.
Quello che ha fatto giorni fa Pomeriggio Cinque, trasmissione Mediaset condotta da Myrta Merlino, è agghiacciante e non può non essere attenzionato dal consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti competente. Lorenzo Carbone, 50 anni, ha ammesso davanti a quelle telecamere del Biscione di aver ucciso sua madre malata.
L'uomo è stato intercettato sotto casa a Spezzano di Fiorano, poco fuori Modena, dal giornalista del programma Fabio Giuffrida. La conduttrice, violando gravemente la deontologia professionale, non ha esercitato la doverosa vigilanza sul contenuto di quella confessione, della quale ha disposto la messa in onda quasi senza filtri, espungendo solo i dettagli più crudi dell’omicidio ma lasciando tutto il resto. I sostenitori della superiorità dell’informazione tradizionale rispetto al chiacchiericcio dei social rivendicano proprio la serietà nella selezione dei materiali da pubblicare, ciò che dovrebbe distinguere i giornalisti dai non giornalisti. E invece in questo caso la televisione ha fatto molto peggio dei canali social, dando in pasto all’opinione pubblica un filmato che non aggiunge nulla alla drammatica notizia di un figlio che uccide la mamma, ma alimenta sentimenti distruttivi e calpesta la dignità dei protagonisti, anche della donna che non c’è più.
Myrta Merlino ha seguito le orme di Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto?, su Rai 3, che ospitò nel 1998 la confessione choc di Ferdinando Carretta, che a Parma aveva ucciso i propri genitori e il fratello minore. Peccato che quella drammatica dichiarazione fosse stata fatta prima ai microfoni della tv di Stato e poi al pubblico ministero. Sempre durante una puntata di Chi l’ha visto? la mamma di Sarah Scazzi apprese in diretta la notizia sconvolgente del ritrovamento del cadavere della figlia. Altra pagina buia del giornalismo televisivo.
Tornando alla più recente confessione di Carbone, appare davvero fuori luogo l’atteggiamento del giornalista che anziché affidare il reo confesso alle forze dell’ordine continua a incalzarlo con domande che denotano accanimento e perversione, tanto che lo stesso Carbone finisce per raccontare per filo e per segno come abbia ucciso sua madre. Sembra quasi che quel giornalista volesse esibire il trofeo di caccia della sua confessione ad un’opinione pubblica ingorda di particolari piccanti e morbosi.
Ma tutto questo cosa c’entra col giornalismo? Enfatizzare il disagio personale e sociale di un cinquantenne che uccide sua madre e cerca perfino visibilità e attenzione dopo aver compiuto quell’inqualificabile gesto degrada il giornalismo a cassa di risonanza degli istinti deteriori dell’uomo. I giornalisti appaiono sempre più ridotti a passacarte, buche delle lettere, che non si pongono minimamente l’obiettivo di esercitare un sano discernimento applicando le regole fondamentali della deontologia professionale, in primis l’essenzialità del racconto, la tutela della dignità umana. La sofferenza umana è ormai diventata un prodotto commerciale che la televisione, alla disperata ricerca di pubblico, vende in modo brutale e cinico. Di questo passo il circo mediatico proseguirà all’infinito e il giornalismo professionale cederà definitivamente alla becera spettacolarizzazione.