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TAIWAN-CINA

Lo storico incontro fra i due volti della Cina

Per la prima volta dalla vittoria di Mao nel 1949, i presidenti di Cina e Taiwan si incontrano faccia a faccia, a Singapore. I due capi di Stato non possono combinare molto, poiché i loro paesi non si riconoscono diplomaticamente. Ma l'opposizione taiwanese teme la svendita della libertà al regime totalitario di Pechino.

Esteri 07_11_2015
"Una Cina. Niente Taiwan?"

A Singapore, oggi, si svolge un incontro internazionale storico, fra i presidenti di Cina e Taiwan. E’ il primo dalla vittoria dei comunisti di Mao Zedong nella guerra civile in Cina, nel 1949.

Le due parti coinvolte non lo possono considerare come un "vertice", né come un meeting “internazionale”. Il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese Ma Ying-jeou lo descrivono come un incontro interno alla stessa nazione e dal carattere informale, visto entrambi si riconoscono, ufficialmente, come “una sola Cina”. La situazione è paradossale da quasi settant’anni. Da quando è finita la guerra civile nel 1949 e il governo nazionalista cinese di Chang Kai-shek si è rifugiato sull’isola di Formosa (poi Taiwan), Pechino la considera come una provincia. Una provincia “ribelle”, poiché non obbedisce ai suoi diktat, ma comunque parte del suo territorio nazionale. Taipei, dal canto suo, non ha mai proclamato la sua indipendenza perché, sempre sul piano formale, si ritiene ancora come il vero governo cinese in esilio, anche se ha smesso di proclamarlo da decenni. Fino al 1971, la Cina (nella sua interezza) era rappresentata all’Onu da Taipei. Dopo quella data, la legittimità e la rappresentanza internazionali sono state trasferite a Pechino. Solo pochi Stati, fra cui il Vaticano, mantengono relazioni diplomatiche con Taiwan. La Santa Sede riconosce ancora il governo di Taipei come la “Cina” e come tale la cita negli incontri internazionali. Nelle organizzazioni mondiali, come il Comitato Olimpico o l’Oms, Taiwan è membro, ma viene presentata come la “Taipei cinese”. All’atto pratico, un tifoso taiwanese allo stadio, durante i giochi olimpici, non può neppure sventolare la sua bandiera, perché la Cina lo riterrebbe un incidente diplomatico.

Che cosa potrebbe cambiare dopo l’incontro di oggi? Nulla di significativo, secondo quanto anticipato dal presidente Ma Ying-jeou. Da parte di Taiwan si insisterà per il mantenimento dello status quo: né indipendenza, né conflitto con il grande vicino di terraferma. Non verranno siglati accordi (e come sarebbe possibile, fra due presidenti che non si riconoscono tali?), né verranno rilasciati comunicati congiunti. Ma Ying-jeou ha annunciato che cercherà di promuovere una maggior rappresentanza di Taiwan nelle organizzazioni internazionali. Silenzio assoluto, invece, da parte di Xi Jinping, che non ha rilasciato alcun commento. Sarà solo un incontro a porte chiuse, seguito da una cena in un lussuoso hotel di Singapore, blindato dalle misure di sicurezza. I giorni di preavviso, per tutti, sono stati molto pochi. La notizia dell’incontro è stata diffusa appena martedì scorso.

Quel che è “storico” è il fatto stesso che i due presidenti si incontrino. Il ché depone bene. Qualche analista particolarmente pessimista continua a considerare la guerra fra Taiwan e Cina Popolare come un evento "inevitabile" nel prossimo futuro. Gli Usa stanno tuttora investendo la maggior parte del loro budget militare nella marina e nei sistemi d’arma capaci di affrontare la Cina, nella disgraziata eventualità che quella guerra scoppi davvero. In questo contesto, anche un dialogo sul mantenimento dello status quo riveste un’importanza fondamentale, specie se i due presidenti trovano finalmente il coraggio di guardarsi negli occhi. Gli scambi commerciali fra le due sponde dello stretto di Taiwan già ci sono, così come il turismo, che è stato parzialmente liberalizzato negli ultimi anni. L’incontro al vertice non può che incoraggiare questa tendenza all’apertura reciproca.

Ma non è tutto così semplice. A gennaio del 2016, fra soli due mesi, a Taiwan si terranno le prossime elezioni presidenziali e i sondaggi danno in vantaggio, non il partito nazionalista Kuomintang, il partito del presidente Ma, bensì il Partito Democratico del Progresso (Dpp), di sinistra, all’opposizione. L’incontro di Singapore è stato accolto da una bordata di critiche da parte del Dpp, che lo considera come una svendita dell’isola alla Cina Popolare. La sinistra di Taipei ha un suo disegno politico completamente alternativo: consolidare l’indipendenza e riavvicinarsi al Giappone, rivale storico e attuale di Pechino. Tsai Ing-wen, la candidata del Dpp alle presidenziali del 2016, il 10 ottobre scorso si è incontrata a Tokyo con membri del governo di Shinzo Abe (nazionalista), per progettare accordi, in caso di vittoria. Anche quello del 10 ottobre è stato un incontro storico, nel suo genere: il primo fra il governo nipponico e un leader d’opposizione di Taiwan. Ed ha un significato chiaro: fare causa comune per difendersi dalle ambizioni territoriali di Pechino. Shinzo Abe ha lanciato un programma di riarmo militare e ha voluto la riforma della Costituzione, finora pacifista, per avere il permesso legale di schierare forze armate anche all’estero. La preoccupazione principale del premier nipponico è costituita dalla contesa sulle isole Senkaku, che fanno parte del Giappone, ma che la Cina (e anche Taiwan, dal canto suo) considera come proprie. In questo contesto, un nuovo asse fra Tokyo e Taipei va letto come diga contro l’espansionismo della Cina Popolare. E l’incontro fra Ma e Xi di oggi è un modo per scongiurare, preventivamente, questo scenario. Almeno fino alle prossime elezioni.

Il Dpp, che a prima vista può essere considerato come il “guastafeste” della situazione, ha invece le sue ottime ragioni per resistere alla politica di riavvicinamento alla Cina. A Pechino, Xi Jinping, tutt’altro che un riformatore, sta calcando il pedale della repressione in tutti i campi. E a Hong Kong, altra enclave autonoma e liberale in Cina, dopo la repressione della protesta per una maggior democrazia, Pechino sta entrando a piè pari, dimostrando di non tollerare troppe autonomie e isole felici all’interno dei suoi confini. Taiwan, al contrario, è una realizzazione della storia alternativa cinese: come la Cina avrebbe potuto essere, oggi, se avesse vinto Chang Kai-shek e non Mao Zedong. E’ un paese fra i più benestanti dell’Asia orientale, dinamico, all’avanguardia nella tecnologia e nella medicina, aperto al mondo e retto da una democrazia ben rodata dal 1986. Al suo interno vige la piena libertà di religione (e, va detto, proprio in un periodo in cui Xi Jinping sta imponendo di nuovo, con forza, l’ateismo di Stato all’interno del partito unico) e piena libertà di espressione. E’, da mezzo secolo, il rifugio per i dissidenti cinesi in fuga da Pechino. L’opposizione taiwanese teme di perdere tutto quel che è stato conquistato nei decenni. Preferisce appoggiarsi a un nemico storico, quale è il Giappone, piuttosto che rischiare di svendere un angolo di libertà in Asia al regime totalitario più grande del mondo.