Lo spettro curdo fra Turchia e Iraq
Ankara sgomita per dominare
la regione, il Partito dei lavoratori curdo (PKK) torna a uccidere. E adesso il ritiro Usa dall'Iraq complica la scena.
Ankara non aveva certo bisogno di un nuovo fronte caldo sul quale impegnarsi dopo le tensioni con Israele determinate dalla contesa sui giacimenti petroliferi e di gas scoperti nelle acque tra Cipro e il Libano e dal sostegno a Gaza occupata da Hamas e il supporto agli insorti libici che hanno deposto il regime di Gheddafi.
Eppure la Turchia, impegnata a rinnovare il suo ruolo di potenza regionale tra Mediterraneo, Medio Oriente e Asia Centrale, ha dovuto affrontare il più antico dei nemici, quel Partito dei lavoratori curdo (PKK) che da anni colpisce il sud dell’Anatolia dalle sue basi istituite nel nord dell’Iraq.
Gli 8 blitz condotti da oltre 200 miliziani in territorio turco che hanno provocato la morte di 24 soldati di Ankara non hanno lasciato scelta a Erdogan che ha scatenato il 19 ottobre una vasta operazione lungo la regione montuosa di confine impiegando oltre 12 mila soldati (22 battaglioni), forze speciali, aerei ed elicotteri e penetrando per una decina di chilometri in Iraq. Non si tratta certo della prima incursione in forze di questo genere che sono state in media una all’anno nello’ultimo quarto di secolo.
L’ultima risaliva al 2008, vide l’impiego di ben 35 milamilitari e provocò la morte di 616 persone mentre l’attacco scatenato nei giorni scorsi è stato anticipato da bombardamenti aerei e d’artiglieria iniziati già a fine agosto e ha provocato finora la morte di quasi 200 persone. Difficile capire se le
vittime siano più tra i civili o tra i 2 mila combattenti che il PKK schiera in Iraq. Di certo le popolazioni curde delle zone di confine del nord Iraq sono costantemente sotto la minaccia delle ritorsioni turche e iraniane mirate contro i miliziani indipendentisti. La crisi evidenzia inoltre la
debolezza dell’Iraq costretto dopo la caduta di Saddam a concedere ampia autonomia di governo ai curdi che evidentemente non riescono o non vogliono interferire con le attività del PKK. Baghdad ha condannato gli "atti terroristici" del Pkk contro la Turchia e ha detto che collaborerà con Ankara sulla sicurezza per impedire il ripetersi di questi fatti. «Il governo iracheno e il governo regionale curdo - ha detto il ministero degli Esteri di Baghdad in una nota - sono impegnati a mantenere la sicurezza ai confini e la collaborazione sulla sicurezza con il governo turco, per impedire che questi atti vengano ripetuti«». Poco più che frasi di circostanza mentre alcuni ambienti turchi rilevano che in Kurdistan iracheno operano da tempo istruttori e consiglieri militari israeliani lasciando così
intendere un possibile "zampino israeliano" dietro gli attacchi dei miliziani. Una sorta di vendetta per la posizione decisamente ostile a Gerusalemme assunta dal governo turco.
La guerra contro il PKK ha causato dal 1984 tra i 30mila e i 45mila morti a seconda delle stime; e il movimento (il cui leader Abdullah Ocalan, sconta l'ergastolo a Istanbul dal 1999) è considerato un'organizzazione terroristica anche da Ue e Usa.
A aumentare i rischi d’instabilità contribuisce l’ormai imminente ritiro degli ultimi 39 mila soldati statunitensi dislocati in Iraq che lasceranno il Paese a fine anno. Non si tratta di un ritiro totale di Washington che manterrà in Iraq una missione civile guidata dal Dipartimento di Stato e composta da 16mila persone inclusi almeno 5mila contractors per la sicurezza incaricati di proteggere la gigantesca ambasciata-fortezza di Baghdad, due consolati e alcune basi che potrebbero essere necessarie per inviare nuove truppe in caso di crisi. Il mantenimento di una missione militare addestrativa, composta da 5mila consiglieri militari statunitensi era stata richiesta da Baghdad ma il parlamento iracheno non ha approvato la concessione dell’immunità giudiziaria che Washington pretende per i suoi militari schierati all’estero.
Alle prese con un fenomeno terroristico qaedista ancora in grado di compiere attentati quasi quotidiani e con un ritorno dell’opposizione armate baathista dei nostalgici di Saddam Hussein (oltre 170 persone arrestate nei giorni scorsi) l’Iraq del premier sciita Nouri al Maliki deve affrontare
gravi problemi di sicurezza. Sul piano interno estremisti sciiti e sunniti minacciano di scatenare una nuova guerra civile mentre sul frointe esterno la Turchia compie incursioni su vasta scala in Kurdistan e l’Iran soffia sul fuoco della destabilizzazione. Le forze armate di Baghdad, ricostruite
dopo il 2003 per far fronte a guerriglia e terrorismo, non ha la capacità di difendere il territorio nazionale in caso di attacchi e scontri campali. Non dispone di un’aeronautica da guerra e la marina conta solo alcuni pattugliatori. Le forniture di armi statunitensi per oltre 10 miliardi di
dollari (inclusi carri armati Abrams e jet F-16) miglioreranno col tempo la situazione ma tra pochi mesi senza la presenza di truppe americane, l’Iraq sarà certo più debole.
Il ritiro delle truppe americane entro la fine del 2011 è «un'occasione storica per gli iracheni», ha detto al-Maliki affermando che il ritiro delle truppe americane cancella qualsiasi giustificazione per i gruppi terroristici per continuare a versare sangue in Iraq". Più un auspicio che una constatazione. La vulnerabilità dell’Iraq dopo il ritiro statunitense resterà comunque oggetto di discussione. Il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha precisato che una volta completato il ritiro delle truppe oggi
presenti «ritengo che intraprenderemo con l'Iraq un iter negoziale per stabilire quale sarà la natura del nostro rapporto, di quale tipo di addestramento e di sicurezza necessitino i nostri interlocutori, e come potremo fornirli loro in maniera efficace».
Al di là delle dichiarazioni di Obama (che punta a utilizzare il ritiro dall’Iraq per compensare il calo di consensi) e delle decisioni del Parlamento di Baghdad la presenza statunitense tra il Tigri e l’Eufrate sembra lontana dalla conclusione.