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POST COVID19

Lo smart working che manda in tilt gli italiani

Proseguire nel cosiddetto smart working o incentivare il pieno ritorno alla normalità in ufficio? È il dibattito che taglia trasversalmente le forze politiche e sociali. Ma pensare di far lavorare da casa gran parte degli italiani a pandemia finita sarebbe una rivoluzione con un impatto devastante sulle abitudini di vita, oltre che sulla tenuta del sistema socio-economico.

Editoriali 22_06_2020

Per mesi gli italiani, a causa del lockdown, hanno lavorato da casa. Lo hanno dovuto fare, sia pure tra mille difficoltà, perché l’alternativa era non lavorare, visto che non potevano raggiungere gli uffici. Dal 4 maggio, con i primi allentamenti delle restrizioni, alcune categorie sono tornate sui luoghi delle proprie attività professionali e, progressivamente, gran parte dei lavoratori hanno potuto rimettere piede nelle aziende o nelle pubbliche amministrazioni nelle quali sono assunti o per le quali lavorano come consulenti o collaboratori.

Ma esiste anche una cospicua fetta di lavoratori che, nonostante le generalizzate riaperture, sta continuando con il lavoro a distanza, anzi sa già che sarà questa la modalità di svolgimento della propria attività professionale anche dopo le vacanze estive, per chi potrà farle.

Di qui il dibattito, che taglia trasversalmente le forze politiche e sociali, sull’esigenza di proseguire nel cosiddetto smart working o, per converso, di incentivare il pieno ritorno alla normalità anche per quanto riguarda il rientro in ufficio.

Ad accenderlo è stato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala che, in un video postato venerdì scorso sui social, ha auspicato la massiccia riapertura dei luoghi di lavoro, usando un linguaggio che ha mandato su tutte le furie molti cittadini del capoluogo lombardo. Come se le persone fin qui non avessero lavorato o avessero approfittato della chiusura forzata del periodo più buio della pandemia per imboscarsi e fare altro. Parole ingenerose nei confronti di milioni di lavoratori che in tutt’Italia, anche a causa delle difficoltà nelle connessioni via web, hanno dovuto lavorare più del dovuto, rendendosi disponibili on-line anche al di fuori degli orari consueti e perfino nei week-end. Tanto che, dal punto di vista del diritto del lavoro, sono in molti ad auspicare l’introduzione del cosiddetto diritto alla disconnessione del lavoratore, che non può e non deve risultare sempre reperibile da parte di superiori gerarchici o datori di lavoro.

Ma la voce del sindaco Sala non è rimasta isolata. Anche il giuslavorista Pietro Ichino, ex parlamentare, in un’intervista su Libero, ha accusato i dipendenti pubblici di aver oziato, percependo un regolare stipendio. .

Queste considerazioni di due autorevoli esponenti della sinistra italiana non sono state gradite dal Ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone (M5S), che ha replicato prontamente: .

I toni usati da Sala e Ichino sono stati probabilmente crudi e irriguardosi nei confronti di chi lo smart working lo ha fatto davvero e con fatica e difficoltà di ogni tipo. Tuttavia, la completa estensione del lavoro a distanza a tutti i settori produttivi non appare la soluzione più adeguata all’organizzazione della società italiana post-Covid 19, considerate peraltro le difficoltà tecnologiche dovute alla mancanza di banda larga e ultralarga in moltissimi territori del nostro Paese.

Sicuramente ci sarebbero effetti benefici in termini di riduzione del traffico e dell’inquinamento. Sicuramente, fino a quando il virus non sarà stato definitivamente sconfitto, il massiccio ritorno in ufficio di milioni di persone potrebbe aumentare i rischi di nuovi contagi. Ma dal punto di vista strettamente socio-economico la questione è più complessa.

Fanno tristezza in questi mesi i grattacieli diventati simbolo della Milano dell’Expo praticamente vuoti perché le grandi banche e le multinazionali che li hanno in affitto hanno deciso, per rispettare i divieti e anche per aggirare i guai giudiziari dovuti a possibili infezioni da Coronavirus, di lasciare i propri lavoratori a casa anche ora che la pandemia ha allentato la presa. Soprattutto, preoccupa il crollo dei bilanci di bar, ristoranti e negozi del centro, già orfani di turisti, che da mesi sono vuoti perché le pause pranzo i lavoratori le trascorrono a casa, non frequentando più gli uffici. Poi c’è tutto il tema della crisi che s’intravvede all’orizzonte per il settore immobiliare (molte grandi aziende pensano di poter rinunciare a gravosi costi fissi per il fitto degli uffici), oltre che per i trasporti pubblici (meno persone che utilizzano autobus, tram, metro, treni regionali ed interregionali) e per il commercio in generale.

Da un punto di vista strettamente pratico, lavorare da casa rende superfluo curare l’abbigliamento e questo sta provocando una fortissima contrazione delle vendite di vestiti e scarpe. Significativa la decisione del noto marchio Zara di chiudere 1200 negozi in tutto il mondo (anche a Milano) e di puntare sulla vendita on line. Gli effetti di tutte queste trasformazioni si sentiranno in termini occupazionali e di riduzione del Prodotto interno lordo.

Infine ci sono tutti i risvolti psicologici, già oggetto di studi allarmanti, dovuti al dilagare di nuove tecnodipendenze, con la gente che non sente più il bisogno di uscire di casa neppure per andare a fare la spesa. È il cosiddetto “effetto grotta” paventato e denunciato dal sindaco di Milano.

Un conto, quindi, è incentivare, laddove possibile, il ricorso allo smart working, altra cosa è pensare di far lavorare da casa gran parte degli italiani anche quando la pandemia sarà finita del tutto. Il Paese, peraltro, non è assolutamente pronto per una rivoluzione del genere, che avrebbe un impatto devastante sulle abitudini di vita, oltre che sulla tenuta del sistema socio-economico.