Lo sciopero è un diritto. Ma fino a un certo punto
Il finanziere Davide Serra, 43 anni, un passato nella banca d’affari Morgan Stanley, è salito agli onori delle cronache come un contributore della Leopolda. Ma ha scaldato più del previsto gli animi dei fedelissimi dell’ex sindaco, pronunciando sullo sciopero parole che a sinistra erano mai state pronunciate.
Il finanziere Davide Serra, 43 anni, un passato nella banca d’affari Morgan Stanley, un presente come amministratore delegato del fondo Algebris, è salito agli onori delle cronache come un contributore della Leopolda. Ha, infatti, sostenuto la kermesse renziana ed è considerato tra gli uomini della “società civile” più vicini al premier. Nel week-end, però, intervenendo all’evento di Firenze, ha scaldato più del previsto gli animi dei fedelissimi dell’ex sindaco, pronunciando parole che a sinistra, e forse neppure a destra, erano mai state pronunciate.
In particolare, parlando delle difficoltà del Paese e delle ingessature che il mondo del lavoro patisce in Italia e in Europa, si è spinto oltre e ha invocato limitazioni del diritto di sciopero, proprio nel giorno in cui a Roma la Cgil e l’altra parte della sinistra, quella facente capo alla minoranza del Pd, manifestava contro il jobs act. Secondo Serra, occorre limitare il diritto di sciopero dei lavoratori pubblici. «Va molto regolato», ha detto, «prima che tutti lo facciano random. Se volete scioperare, scioperate tutti in un giorno: in caso contrario, chi vuole venire qui a investire, non ci viene. Quello che voglio dire è che lo sciopero è un diritto, ma anche un costo». Nel pensiero del finanziere, quindi, la possibilità indiscriminata di incrociare le braccia annienta la capacità attrattiva del sistema Italia nei confronti dei capitali stranieri e scoraggia nuovi investimenti. Forti le sue opinioni anche sul jobs act. «Potrebbe essere più aggressivo», ha detto, «In Italia siamo rimasti agli Anni sessanta: ma che vadano a vedere come funziona in Russia e in Cina». E alla minaccia della Camusso e di Landini di proclamare uno sciopero generale in caso di conferma dell’impianto del jobs act ha replicato con toni al vetriolo: «Se vogliono aumentare i disoccupati, facciano pure. Se avessero voluto aiutare i propri figli a creare un'azienda o trovare un posto di lavoro probabilmente avrebbero fatto meglio a dare una mano, fare qualcosa, venire qui a trovare un po' di idee, piuttosto che andare sempre a recriminare».
Fin qui le esternazioni decisamente “sopra le righe” del finanziere, che però ha infilato il dito nella piaga. Il diritto di sciopero è stato messo profondamente in discussione e ha perso molto del suo significato originario. Ha sì una matrice nobile e affonda le sue radici in un’epoca storica di profonda subalternità dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro. Oggi, tuttavia, il sistema produttivo è profondamente cambiato, il fattore lavoro ha un peso specifico decisamente inferiore, anche a causa della finanziarizzazione del mondo industriale e degli incalzanti processi di innovazione tecnologica.
Negli ultimi trent’anni il diritto di sciopero, garantito dall’art.40 della Costituzione, è stato sovente utilizzato come strumento di lotta politica nelle mani di sindacati che l’hanno brandito come arma di ricatto nei confronti dei governi in carica. La minaccia di bloccare le piazze, creando disagi e fomentando tensioni sociali, è stata una prassi consolidata posta in essere da confederazioni sindacali “fuorilegge”, che mai hanno acconsentito ad assoggettarsi alle disposizioni di un altro articolo della Costituzione, il 39, rimasto inattuato nella parte in cui obbligava i sindacati a registrarsi presso uffici centrali o locali per acquisire personalità giuridica. In questo il premier ha profondamente ragione: Cgil, Cisl e Uil hanno da tempo smesso di difendere i diritti dei lavoratori e di preoccuparsi di chi il lavoro non ce l’ha e si sono concentrate sulla difesa degli iscritti, finendo per garantire semplici rendite di posizione, ignorando le profonde trasformazioni che il mercato del lavoro ha subito negli ultimi anni.
Il jobs act, pur migliorabile, muove nella direzione giusta, perché prende atto di quelle trasformazioni e cerca di incanalarle nel flusso virtuoso di un nuovo “patto” tra lavoratori e datori di lavoro, basato su meritocrazia e flessibilità. Si tratta di una svolta epocale che smantella apparati di potere mai scardinati neppure dai governi di destra e ora messi seriamente in discussione dal new deal renziano. Il diritto di sciopero si è declinato in forme anarchiche fino al 1990, quando ha finalmente trovato una disciplina attraverso la legge n.146, che tuttavia non è riuscita a combattere efficacemente uno dei risvolti più devastanti di quel diritto: l’affermazione della “dittatura delle minoranze”. Stante la frantumazione e polverizzazione delle sigle sindacali e la nascita di sigle “pulviscolari” ma in grado, da sole, di paralizzare l’erogazione di un servizio pubblico, il diritto di sciopero non ha smesso di rappresentare un espediente nelle mani di minoranze organizzate per impedire alla maggioranza dei lavoratori di assolvere ai propri doveri quotidiani.
In altre parole, abbiamo spesso assistito a scene disarmanti: un manipolo di lavoratori che incrociano le braccia bloccando il lavoro di tanti milioni di persone e arrecando disagi all’intero Paese. Si pensi, ad esempio, alle agitazioni dei lavoratori del trasporto pubblico nelle grandi città. Anche scioperi fondati su valide ragioni sono stati egemonizzati da sigle sindacali politicizzate che hanno strumentalizzato la protesta rendendola un regolamento di conti tra fazioni o una rivendicazione nei confronti dei governanti.
Ecco perché le parole di Serra, pur pronunciate in modo forse un tantino goffo, non dovrebbero essere etichettate come offensive nei confronti del mondo del lavoro. Quest’ultimo non è composto solo da chi sciopera, anzi è costituito da milioni di lavoratori che non hanno mai scioperato, anche quando ne avrebbero avuto buoni motivi, proprio per senso di responsabilità nei confronti del Paese. Lo sciopero ha assecondato per decenni nel nostro Paese pulsioni individualiste e corporative, irriguardose nei confronti del “patto sociale” e intergenerazionale che tiene unita la società. Sarebbe sbagliato dimenticarlo.