ll clima di terrore pesa sull'elezione del Presidente
Nel 1992, dopo una lunga impasse (dovuta a Tangentopoli e alla fine dei vecchi partiti) la scelta ricadde su Oscar Luigi Scalfaro, scelto solo da una parte del Parlamento. Ma solo perché il paese intero era tramortito dalla strage di Capaci. Oggi il terrorismo islamico può far sì che la storia si ripeta.
Correva l’anno 1992, il 17 febbraio scoppiava Tangentopoli con l’arresto di Mario Chiesa, il 5 aprile si svolgevano le elezioni politiche e, poco dopo, il 28 aprile, l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si dimetteva in anticipo (il suo mandato sarebbe scaduto il 3 luglio) aprendo la strada a una nuova corsa al Quirinale.
Dopo una prolungata impasse, dovuta anche allo spappolamento del quadro politico della cosiddetta “Prima Repubblica” e al cortocircuito tra politica e giustizia provocato dalle devastanti inchieste per corruzione, solo un evento tragico consentì di sbloccare la paralisi istituzionale e di assicurare una successione al Colle. A prevalere, al sedicesimo scrutinio, il 25 maggio di quell’anno, fu Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Camera, ma solo perché il Paese fu tramortito dalla strage di Capaci e dall’assassinio di Giovanni Falcone (23 maggio). Le votazioni erano iniziate il 13 maggio e non si intravvedeva alcuna soluzione capace di sanare le fratture che si erano create in aula. Fino a quando l’omicidio Falcone scosse l’opinione pubblica e mise fretta alle forze politiche, contribuendo a far uscire il Paese da un guado paralizzante. Tra i vari nomi avanzati senza esito durante le votazioni precedenti (Forlani, Iotti, Conso, Andreotti) prevalse alla fine quello di Scalfaro.
La delegittimazione dei partiti tradizionali procedeva in modo galoppante; la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano, ma anche le altre forze politiche del defunto pentapartito, si sgretolarono a colpi di avvisi di garanzia, prodotti da inchieste che dimostrarono un coinvolgimento trasversale e assai esteso, anche del vecchio Partito Comunista italiano, che presto si sarebbe scisso in Partito democratico della sinistra (Pds) e Rifondazione comunista.
Scalfaro divenne Capo dello Stato grazie ai voti espressi da Dc, Psdi, Psi, Pri, Pds, Verdi, Radicali e Rete di Leoluca Orlando. La fretta fu cattiva consigliera, è proprio il caso di dirlo, visto che il settennato di Scalfaro viene tuttora ricordato come uno dei più negativi e discussi nella storia d’Italia. Nel 1993, a poco più di un anno dalla sua ascesa al Colle, il suo nome venne associato allo scandalo sui fondi neri del Sisde versati a favore di alcuni funzionari dei servizi segreti, mentre lui era ministro dell’Interno. Serpeggiava la paura, la guerra tra Stato e mafia aveva già vissuto, sempre nel 1992 (marzo), una pagina delicata, con l’assassinio di Salvo Lima, che di fatto frenò l’ascesa al Quirinale di Giulio Andreotti. La figura di Scalfaro apparve come di garanzia da questo punto di vista, ma lo scandalo Sisde appannò fin da subito l’immagine dell’inquilino del Quirinale.
E a partire dal 1994 il Capo dello Stato diede il peggio di sé assumendo sistematicamente atteggiamenti interventisti e non in linea con il ruolo notarile che la Costituzione gli assegnava. La preferenza che Scalfaro sempre dimostrò nei confronti delle forze politiche della sinistra e un marcato pregiudizio nei confronti del leader del centrodestra Silvio Berlusconi contribuirono ad avvelenare il clima politico e a ritardare quel processo di pacificazione che avrebbe certamente giovato alla crescita unitaria del Paese e alla maturazione di un maggiore senso civico. E la conferma a posteriori della sua faziosità si ebbe nel 2007, quando l’ormai ex Presidente, dopo aver votato da senatore a vita la fiducia ai governi D’Alema e Prodi II, aderì al Partito democratico.
Oggi la storia potrebbe ripetersi. I fatti francesi hanno turbato anche gli italiani, il Presidente del Consiglio ha partecipato alla marcia di ieri a Parigi, il ministro dell’interno, Angelino Alfano ha lanciato l’allarme sicurezza, preannunciando l’attivazione di misure straordinarie e preventive per tutelare l’incolumità dei cittadini. Tutto questo clima di terrore peserà sull’elezione del successore di Napolitano. C’è chi non esclude che quest’ultimo, proprio a seguito dei tragici fatti francesi, possa addirittura posticipare di qualche giorno le sue dimissioni, previste per mercoledì. In ogni caso, il problema della sua successione si porrà in questo mese e quindi, prima ancora che discutere di nomi, bisognerebbe definire i criteri per la designazione del nuovo Capo dello Stato.
L’allarme terrorismo islamico suggerirà di puntare su un nome che già nelle prime votazioni possa ottenere una maggioranza qualificata senza trascinare troppo a lungo la “pratica Quirinale”? Ma quali caratteristiche dovrebbe avere questo nome per mettere d’accordo fin da subito la maggioranza dei due terzi dei “grandi elettori”? Anzitutto un’autorevolezza istituzionale indiscussa, capace di rassicurare i mercati e i partners europei. In secondo luogo, un’impronta liberale in materia religiosa, considerato che l’eventuale elezione di un cattolico potrebbe forse suscitare reazioni nella comunità islamica italiana, dando fiato alle anime più estremiste: la delicatezza del momento suggerisce, secondo alcuni, una caratterizzazione meno netta dal punto di vista religioso. In terzo luogo, un profilo non politico, capace di rivelarsi un collante tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, in grado di assecondare il processo riformatore avviato con il Patto del Nazareno e di guidare il Paese fuori dalla crisi economica e sociale, senza però interventi a gamba tesa né ingerenze nell’azione del governo.
Se invece non si trovasse un nome ampiamente condiviso e le votazioni infruttuose si susseguissero in modo sterile e se l’allarme terrorismo dovesse acuirsi, non è escluso che la storia si ripeta e che, come nel 1992 con Scalfaro, si opti per un politico eletto a maggioranza semplice e tra i mugugni di una parte importante del Paese. In questo senso, il rischio forse più incombente resta quello dell’elezione di Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, considerato dal centrodestra una personalità ingombrante e divisiva, peraltro osteggiata anche da settori importanti del mondo renziano. Prodi come Scalfaro? Si capirà presto.