L'Italia va alla guerra in Libia? Ecco come
Quando i miliziani jihadisti hanno conquistato Sirte, minacciando da vicino il nostro paese, i ministri di Esteri e Difesa non avevano esitato a parlare di possibile intervento armato. Poi il governo ha fatto marcia indietro. Tuttavia un intervento è nell'interesse dell'Italia.
L'Egitto risponde all'uccisione dei cristiani di Stefano Magni
L’Italia va alla guerra in Libia ? Venerdì sembrava proprio così quando il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva detto che l’Italia è pronta a “combattere” contro lo Stato Islamico che sta dilagando nella nostra ex colonia e soprattutto dopo che in un’intervista al “Messaggero” il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, si era spinta a ipotizzare l’invio di 5mila militari su quella che un tempo era la nostra quarta sponda.
Nelle ultime ore però il governo ha fatto marcia indietro e lo stesso Matteo Renzi ha detto ieri che “non è il momento per un intervento militare”. Per il premier "la visione del governo è una sola" e tutti la condividono, ministri compresi: la proposta è aspettare che il Consiglio delle Nazioni Unite lavori un po' più convintamente sulla Libia. In pratica attendere chissà quanto che l’Onu autorizzi una missione al buio che avrebbe un senso solo in caso di accordo tra i “due governi” libici insediati a Tripoli (gli islamisti) e a Tobruk (laici e militari) che finora si sono fatti la guerra. Il dilagare delle milizie dello Stato Islamico da Derna a Sirte con molte cellule terroristiche presenti anche nella stessa Tripoli potrebbe favorire un accordo o almeno una tregua prolungata tra le due parti tesa a combattere lo Stato Islamico facendo quindi fronte a un nemico comune.
In ogni caso un intervento militare italiano dovrebbe stabilire, ancora prima dei numeri indicati dalla Pinotti, gli obiettivi della missione, precisando che si tratterebbe di fare la guerra e non certo una “missione di pace”. Molte le domande a cui dare risposta prima di definire l’entità del contingente.
Chi sono i nostri alleati sul terreno? Finora nessuno dei contendenti ha chiesto l‘intervento di forze di terra, ma solo supporto aereo e logistico. Lo ha ribadito ieri il premier Abudullah al Thani dichiarando che “non chiediamo forze di terra straniere in Libia" e il generale Khalifa Haftar che guida l’esercito contro gli islamisti ed è legato al governo laico di Tobruk guidato da Thani che lo guarda però con sospetto per i suoi evidenti tentativi di assumere le redini politiche della Libia. Eventuali "attacchi di una coalizione internazionale contro il terrorismo andrebbero bene per la Libia” ha detto Haftar apprezzando i raid aerei egiziani che ieri hanno colpito le basi dell’IS a Derna esprimendo però parere negativo a "un intervento militare terrestre egiziano”.
Se anche si trovasse un accordo, l’Italia potrebbe schierare in Libia un numero di soldati certo insufficiente a liberare il Paese ma abbastanza ampio per rappresentare un bersaglio per i terroristi jihadisti. Inoltre, anche a causa degli ampi tagli posti ai bilanci della Difesa le forze armate italiane avrebbero difficoltà a sostenere uno sforzo prolungato. Moltissimi aerei ed elicotteri sono a terra per mancanza di pezzi di ricambio e la gran parte dei reggimenti terrestri non effettua da tempo un vero addestramento al combattimento per mancanza di fondi.
Ciò significa che sarebbe possibile sostenere uno sforzo iniziale con una dozzina di aerei da combattimento, una mezza dozzina di navi, paracadutisti e fucilieri di Marina (che sono reparti di pronto impiego per far fronte alle emergenze) ma sarebbe arduo mantenere nel tempo uno sforzo del genere avvicendando i reparti. Inoltre vale la pena chiedersi se la politica e l’opinione pubblica italiana sono in grado di reggere le perdite che inevitabilmente si registrerebbero in un conflitto contro lo Stato Islamico.
Così come incerta è la Coalizione che potrebbe costituirsi, considerato che Francia, Egitto e Algeria (i Paesi più minacciati insieme all’Italia dall’insediamento dello Stato Islamico in Libia) hanno finora negato ogni impegno di proprie truppe sul territorio libico. Se a queste incognite aggiungiamo quelle di un mandato dell’ONU che, se anche dovesse vedere la luce, difficilmente avrebbe caratteristiche belliche adeguate appare evidente che la missione italiana è ancora in alto mare. Inspiegabile quindi che senza un mandato, una coalizione e alleati definiti sul terreno due importanti ministri del governo Renzi l’abbiamo evocata attirando l’attenzione dello Stato Islamico che ha subito raccolto la “dichiarazione di guerra” di Angeloni, definito “ministro dell’Italia crociata”.
Considerata la grande confusione che regna in Libia e nella comunità internazionale, circa le iniziative da assumere, l’Italia potrebbe attuare in tempi brevi e con costi contenuti operazioni militari limitate contro le basi dello Stato Islamico a Derna, Sirte e in altre località in mano al Califfato. Del resto un intervento è necessario indipendentemente dalle decisioni dell’ONU poiché il Califfato in Libia costituisce una grave minaccia per la sicurezza e gli interessi italiani.
Invece di una missione terrestre con migliaia di truppe e costi annui superiori al mezzo miliardo di euro, sarebbe però possibile dare il via a incursioni aeree e attacchi di forze speciali e unità di fanteria elitrasportate o anfibie contro obiettivi jihadisti. Si tratterebbe di operazioni “mordi e fuggi” che l’Italia potrebbe condurre dalle basi aeree in Sicilia e dal mare impiegando la portaerei Cavour e navi da assalto anfibio. Quasi una replica delle operazioni condotte nel 2011 contro le forze di Gheddafi. Aerei, elicotteri, navi e forze d’élite darebbero un valido supporto alle milizie libiche anti-IS senza schierare truppe a terra (se non sporadicamente) riducendo costi e rischio di perdite a dimensioni accettabili e soprattutto sostenibili nel tempo. Mantenere una costante pressione navale sulle coste libiche consentirebbe inoltre di intercettare alla partenza i barconi e fermare i flussi di immigrati clandestini diretti in Italia perseguendo “manu militari” i trafficanti e bloccando così la più importante fonte di finanziamento dei jihadisti in Libia.
L'Egitto risponde all'uccisione dei cristiani di Stefano Magni