L'Irlanda contro il Papa
Dietro il duro attacco sferrato dal primo ministro Edna Kenny spuntano certi "cattolici del dissenso"...
- Attacco al confessionale.
Bufera in Irlanda
Tra Santa Sede e Irlanda, il clima non volge al sereno. Riassunto delle puntate precedenti: il 13 luglio è stato pubblicato il rapporto sugli abusi di minori da parte del clero della diocesi di Cloyne. Il 20 luglio il primo ministro Enda Kenny [nella foto] lo ha commentato in parlamento in un discorso durissimo, mentre due ministri annunciavano la presentazione di un disegno di legge che obbligherebbe i sacerdoti, sotto pena di cinque anni di prigione, a rivelare anche notizie di abusi su minori apprese in confessione. Di questi avvenimenti abbiamo dato notizia su La Bussola Quotidiana, esprimendo nello stesso tempo comprensione per la reazioni irlandesi a quelli che lo stesso Pontefice, nella sua Lettera ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010, ha definito «atti peccaminosi e criminali» e ferma riprovazione per ogni ipotesi di attacco al segreto della confessione, che – tranne l’Albania comunista di Enver Hoxha (1908-1985) – neppure i peggiori regimi totalitari europei hanno mai osato toccare.
Ora la Santa Sede ha richiamato a Roma per consultazioni il nunzio apostolico, certo con lo scopo di preparare la risposta al rapporto sulla diocesi di Cloyne che il governo irlandese reclama, ma adottando quella che il vicedirettore della Sala Stampa vaticana, padre Ciro Benedettini, ha definito «una misura cui raramente la Santa Sede fa ricorso, [che] denota la serietà della situazione, la volontà della Santa Sede di affrontarla con obiettività e determinazione, nonché una certa nota di sorpresa e rammarico per alcune reazioni eccessive». Vale dunque la pena di tornare sulle «reazioni eccessive». L’espressione si riferisce certamente al disegno di legge che comprende clausole contro il segreto del confessionale, suscettibile di scardinare l’intero edificio della libertà religiosa in Irlanda e contro cui le critiche sono sia giustificate sia, da un certo punto di vista, ovvie. Ma molti hanno visto nelle parole di padre Benedettini anche un riferimento al discorso del primo ministro Kenny, da molti in Irlanda definito «storico».
Il discorso, in effetti, colpisce per la vigorosa retorica con cui il premier insiste sul fatto che i laici irlandesi sono padroni a casa loro e non hanno alcuna intenzione di farsi dettare la linea politica e giudiziaria né dai vescovi né dal Vaticano. Sembrerebbe un discorso del primo ministro spagnolo José Luis Zapatero, se proprio non vogliamo scomodare qualche padre della patria mangiapreti del nostro Risorgimento. Il fatto è, però, che Kenny non è Zapatero. È un cattolico praticante che fa parte di un partito di originaria ispirazione cattolica e di centro-destra, anche se negli anni 1990 introdusse il divorzio in Irlanda e oggi, pur contrario al matrimonio omosessuale, promette il riconoscimento delle unioni civili alle persone dello stesso sesso. Come ha scritto molta stampa irlandese, solo un cattolico poteva permettersi certi accenti senza essere tacciato di pregiudizi anticlericali di stampo ottocentesco.
Kenny vola nei sondaggi perché il suo discorso ha espresso la rabbia degli irlandesi, che negli ultimi anni – proprio per gli scandali dei preti pedofili – ha fatto scendere la partecipazione alla Messa a livelli più bassi di quelli italiani. Un’indignazione che lo stesso Benedetto XVI ha mostrato di comprendere nella lettera del 2010, in cui grida ai sacerdoti irlandesi colpevoli di abusi che «avete perso la stima della gente dell’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli», e ai vescovi ricorda che «alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi». Ma è tutto oro quello che agli irlandesi sembra oggi luccicare?
Ci sono certamente alcuni aspetti del discorso del premier che possono essere condivisi. Kenny ha espresso incondizionata solidarietà alle vittime di abusi, un’affermazione non scontata da parte del leader di un governo irlandese che in passato ha fatto spesso troppo poco. Ha riconosciuto che la maggior parte dei sacerdoti dell’Irlanda non ha nulla a che fare con la pedofilia. E ha dichiarato che lo Stato, che si è mostrato spesso inefficiente, deve fare pulizia anche in casa propria quanto alla repressione degli abusi sui minori, da chiunque commessi. In una situazione di «vergogna e disonore» – parole, come abbiamo visto, di Benedetto XVI – si può anche comprendere, pure se qualche accento è parso fuori dalle righe, l’orgogliosa rivendicazione – da parte di un uomo politico che nella prima frase del suo discorso ha tenuto a dichiararsi cattolico – dell’autonomia dei laici e della sfera temporale rispetto a un clero e a un episcopato che non sempre hanno dato buona prova di sé.
Due aspetti del discorso di Kenny meritano invece qualche rilievo critico. Il primo è di natura strettamente giuridica. Kenny cita dal rapporto su Cloyne una lettera del 1997 in cui l'allora nunzio apostolico in Irlanda, monsignor Luciano Storero (1926-2000), comunicava ai vescovi irlandesi le «serie riserve» della Congregazione del Clero sul modo in cui il documento sugli abusi preparato nel 1995 da una commissione di esperti per l’episcopato irlandese formulava l’obbligo di denunciare alle autorità civili i casi di pedofilia. Il premier, con indubbia efficacia retorica, ne trae occasione per una vera invettiva dove assicura che le interferenze del Vaticano sull’autonomia dei giudici, dei politici e anche dei vescovi irlandesi non saranno più tollerate. Gli scappa anche detto che tentativi vaticani di ostacolare l’attività d’indagine sulla pedofilia in Irlanda si sono verificati «ancora nel 2009», frase che dovrà però rettificare in una successiva intervista affermando di non avere prove di queste interferenze.
La questione giuridica è ricostruita però dando l’impressione, inesatta, che il nunzio Storero incitasse i vescovi irlandesi a far prevalere il diritto canonico sul diritto civile. Pur manifestando – come ha fatto il portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi – legittimi dubbi «sull’adeguatezza dell’intervento romano di allora in rapporto alla gravità della situazione irlandese», resta il fatto che nel 1997 a essere poco chiaro era il diritto civile. Questo richiedeva alle autorità religiose di denunciare gli abusi? O al contrario non lo richiedeva, e i vescovi rischiavano di essere a loro volta accusati di violazione della privacy degli accusati e del loro stesso dovere di riservatezza come religiosi? La risposta la dà lo stesso rapporto su Cloyne, al paragrafo 6.36: «La commissione d’inchiesta riconosce che le direttive della Chiesa erano molto più rigorose di quelle adottate dallo Stato, perché richiedevano che tutte le accuse contro i preti operanti in una diocesi fossero riferite alle autorità sanitarie e anche alla gendarmeria». Lo Stato non può accusare la Chiesa di avere dubbi su leggi che lo Stato stesso – di cui la commissione su Cloyne era un organo – giudica non sufficientemente chiare e rigorose. Certamente in Irlanda i vescovi cattolici, come scrive Benedetto XVI, hanno «mancato, a volte gravemente». Ma anche lo Stato non può dire di avere fatto fino in fondo la sua parte.
Il secondo aspetto inaccettabile del discorso di Kenny è l’attacco personale a Benedetto XVI. Dopo avere attaccato il «clericalismo romano», il premier nelle battute finali ha affermato che «il cardinale Joseph Ratzinger disse che "standard di condotta appropriati per la società civile o per il funzionamento di una democrazia non possono puramente e semplicemente essere applicati alla Chiesa". […] Come primo ministro voglio che sia assolutamente chiaro che quando si tratta della protezione dei bambini di questo Stato gli standard di condotta che la Chiesa considera appropriati per se stessa non possono essere e non saranno applicati al funzionamento della democrazia in questa Repubblica. Non puramente né semplicemente né in alcun altro modo». Gli irlandesi che hanno ascoltato e applaudito il premier hanno pensato che il cardinale Ratzinger stesse difendendo i privilegi canonici della Chiesa contro le commissioni d’indagine sulla pedofilia. Ma la citazione è tratta dal paragrafo 39 della istruzione del 1990 Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, firmata dall’allora cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e non ha nulla a che fare con la pedofilia o i rapporti con gli Stati. La Congregazione, che si sta rivolgendo ai teologi, afferma che le verità di fede non sono votate a maggioranza né derivano «democraticamente» dal «“consenso” dei teologi». Anche se la maggioranza dei teologi affermasse che Gesù Cristo è risorto solo metaforicamente, o che l’aborto è lecito, la loro opinione sarebbe irrilevante perché nella Chiesa la verità non si vota con la maggioranza della metà più uno.
È poco verosimile che il primo ministro irlandese si ricordi l’istruzione Donum veritatis, pubblicata ventuno anni fa per ammonire i teologi del dissenso. Ma è invece molto verosimile che se la ricordi bene qualche teologo. Agnosco stylum, «riconosco il pugnale», potrebbe rispondere Benedetto XVI: e più d’uno anche in ambienti politici ed ecclesiali irlandesi mormora che questo passaggio del discorso di Kenny non può essere stato scritto che da un prete. È pure sospetto che a poche ore dal discorso si sia affrettata a congratularsi con il premier l’Associazione dei Preti Cattolici, un’influente lobby di cinquecento sacerdoti che contestano diversi insegnamenti della Chiesa e oggi sono impegnati in un braccio di ferro con i vescovi sulla nuova traduzione in inglese del canone della Messa, ritenuta troppo «romana» e preoccupata dell’ortodossia. Loro sì che conoscono la Donum veritatis…
E tuttavia perfino l’Associazione dei Preti Cattolici si è spaventata di fronte alle minacce al segreto della confessione. E qualche iscritto, criticando la dirigenza, ha invitato tutti a un momento di meditazione sulla tristissima storia di Nora Wall, il più grande dramma giudiziario nella storia dell’Irlanda moderna. Nel clima emotivo delle prime rivelazioni sui preti pedofili, nel 1996 la polizia credette immediatamente alle rivelazioni di Regina Walsh, una ragazza che era stata allevata dalle Suore della Misericordia, secondo cui una suora, Nora Wall – che nel frattempo aveva lasciato l’ordine nel 1994 – l’aveva ripetutamente violentata nel 1990 e in un’occasione l’aveva tenuta ferma mentre un vagabondo, Pablo McCabe (1948-2002), la violentava a sua volta. Nel 1999 Nora Wall fu condannata all’ergastolo, e McCabe, ritenuto succube della suora e quindi meno colpevole, a dodici anni di carcere. La Wall fu dipinta come un mostro: la prima donna condannata per violenza carnale, e mandata all’ergastolo per un crimine sessuale, nella storia giudiziaria irlandese.
Ben presto, però, emersero dubbi. La sentenza era stata emessa nel clima isterico creato da una serie televisiva, Stati di paura, trasmessa dalla televisione di Stato irlandese e conclusa meno di un mese prima del processo, dove – sulla base di scarsissimi elementi fattuali e storici – le Suore della Misericordia venivano dipinte come maniache sessuali che gestivano collegi lager dove centinaia di ragazze erano regolarmente violentate dalle suore e dai confessori, e perfino assassinate. Passato il momento d’isteria collettiva, si fecero avanti parecchie persone falsamente accusate di violenze sessuali da Regina Walsh, che esaminata dagli psichiatri fu definita una mitomane e una bugiarda patologica. Nel 2005, dopo una lunga vicenda giudiziaria, la Corte d’Appello definì la sentenza di primo grado «un aborto della giustizia» e presentò le scuse dell’Irlanda a Nora Wall – il povero McCabe nel frattempo era morto.
Forse l’aspetto più triste della vicenda è che le Suore della Misericordia, terrorizzate dal diluvio di accuse, non credettero alle proteste d’innocenza della loro ex consorella e in un comunicato parlarono di «crimini rivoltanti», definendo «eroica» Regina Walsh e invitando le superiore delle loro case a denunciare subito alla polizia qualunque suora fosse accusata di abusi, anche dopo molti anni dai presunti fatti.
Quando si riflette sull’intricata questione dei rapporti fra Stato, diocesi e congregazioni religiose in Irlanda a proposito della gestione di accuse di abusi non si può dimenticare Nora Wall. La sua storia certamente non toglie nulla alla vergognosa colpevolezza dei sacerdoti che hanno abusato di bambini e all’omessa vigilanza di alcuni vescovi irlandesi. Ma ricorda che creare un clima dove qualunque religioso o religiosa accusato è per definizione colpevole, e dove le emozioni prevalgono sull’esame pacato dei singoli casi, non giova veramente a nessuno.