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MEDIO ORIENTE

L'intifada porterà alla separazione dei palestinesi

L'intifada "dei coltelli" in Israele non fa più notizia sui media internazionali Non fa più notizia sui media internazionali - impegnati su mille altri fronti della «guerra mondiale a pezzi». Ma questo non significa affatto che la rivolta a Gerusalemme abbia rallentato. È dura proprio perché più nascosta e più pervasiva.

Editoriali 26_11_2015
Civili in fuga

Ieri mattina è toccato a un soldato di 20 anni: nei pressi di Hebron un diciannovenne palestinese lo ha aspettato a un incrocio e gli si è scagliato contro con il solito coltello. L'israeliano è rimasto gravemente ferito: è ricoverato a Gerusalemme; il palestinese è stato colpito e ucciso dal fuoco degli altri militari. Sì, anche ieri l'intifada dei coltelli ha dato la sua notizia quotidiana in Terra Santa. E sono due mesi che - almeno una volta al giorno - succede così, in Israele o ai bordi di una strada che porta a qualche insediamento in Cisgiordania.

Non fa più notizia sui media internazionali - impegnati su mille altri fronti della «guerra mondiale a pezzi». Ma questo non significa affatto che la rivolta a Gerusalemme abbia rallentato. I dati forniti l'altro giorno dal ministero degli Esteri parlano chiaro: 23 israeliani uccisi in questa ondata di violenze e altri 189 feriti. Con 74 accoltellamenti, 12 attentati con auto lanciate contro persone ai bordi della strada, 10 agguati con armi da fuoco. Tra le vittime non ci sono distinzioni: c'è il soldato israeliano di ritorno a casa come l'anziano professore pacifista che quando incrocia un ragazzino imbevuto di ideologia in cerca del primo ebreo che passa diventa uguale a tutti gli altri. C'è Hadar, la ragazza ventunenne di Safed, accoltellata e uccisa proprio allo stesso incrocio dove nel 2014 vennero rapiti (e poi anche loro uccisi) Eyal, Gilad e Neftali, i tre studenti della scuola rabbinica; l'eterno ritorno dell'odio. Ma c'è addirittura anche l'anziano arabo di Betlemme - uno dei pochi con ancora il permesso di recarsi fuori dai Territori - ferito con le forbici da due ragazzine palestinesi di Gerusalemme Est a Mahane Yehuda, il mercato ebraico. Testimonianza di come - spogliati di kippah, veli e keffiah - non sia affatto facile distinguere a occhio nudo un israeliano da un palestinese. 

Poi c'è il dato che il governo israeliano non fornisce: quello sui 90 palestinesi uccisi e i circa 500 feriti nello stesso periodo. Numeri che comprendono tutti gli autori degli attacchi, ma non per questo sono meno drammatici. Perché in molti casi si tratta di ragazzini di sedici, quattordici, in alcuni casi addirittura dodici anni; generazione che ricorre alla violenza perché l'ha respirata da quando è venuta al mondo. E oggi non vede davanti a sé altra strada che un corpo a corpo che nel mondo non fa più nemmeno notizia. Le fazioni palestinesi sono sempre pronte a sventolare le foto di questi nuovi «martiri»; facendo finta di non sapere che questa intifada ancora più nichilista delle altre, senza né capo né coda, è l'espressione chiara di un rifiuto anche nei loro confronti.

È lo scenario peggiore quello che si profila davanti a Gerusalemme. Proprio mentre qualcuno predica che in Occidente dovremmo tutti imparare dalle procedure di sicurezza adottate da decenni in Israele, chi vive là sperimenta l'assoluta vulnerabilità davanti a una forma di violenza nuova e impossibile da prevenire. Come si fa a intercettare e fermare chi come arma non utilizza un kalashnikov, ma un semplice cacciavite e colpisce nel posto più anonimo la prima persona che incrocia sulla strada? Oppure si scaglia con la sua auto contro persone in attesa alla fermata dell'autobus? Il tutto sapendo benissimo che le probabilità di finire egli stesso ucciso in questo attacco sono molto alte ma questo non costituisce affatto un deterrente?

È dura proprio perché più nascosta e più pervasiva la violenza di questa nuova intifada. È destinata a mettere molto in difficoltà Israele. Perché l'unico modo per risolverla è arrivare davvero a una separazione con i palestinesi. Separazione che può avvenire per trattativa (come sogna da sempre la comunità internazionale) o per scelte unilaterali (come aveva provato a fare Ariel Sharon). Ma una separazione per Israele significa comunque tracciare un confine, rinunciare a qualcosa nella terra che sta tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Fosse anche solo per fortificare meglio il fortino da difendere. A Gerusalemme si dice con sempre più insistenza che Netanyahu starebbe cominciando a pensarci. Del resto l'impotenza di fronte a un'intifada non è un'esperienza facile per un premier israeliano. Nella stanza dei bottoni l'hanno già vissuta Yitzhak Rabin e Ariel Sharon. E ne sono usciti diversi da ciò che erano prima.