L'informazione on line? Pronti a pagarla se è di qualità
Gli italiani, secondo sondaggi attendibili, sarebbero disposti a pagare le news on line, a patto che siano attendibili e di qualità. Il 73% degli italiani si dice molto o estremamente interessato all'informazione e soltanto il 3% dichiara di non esserlo. Lo rivela l'indagine conoscitiva dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
L'innovazione tecnologica ha moltiplicato i canali informativi, ma sta impoverendo il mercato giornalistico. Occorre adottare nuove regole per rilanciare la filiera di produzione e distribuzione delle notizie e individuare nuove fonti di finanziamento dell'intero sistema dell'informazione. Gli italiani, secondo sondaggi attendibili, sarebbero disposti a pagare le news on line, a patto che siano attendibili e di qualità. Il 73% degli italiani si dice infatti molto o estremamente interessato all'informazione e soltanto il 3% dichiara di non esserlo. Questi alcuni tratti dello scenario che emerge dall'indagine conoscitiva dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) presentata al Senato nei giorni scorsi. Significativo il titolo della ricerca, "Informazione e internet in Italia. Modelli di business, consumi, professione", realizzata attraverso l'Osservatorio sul giornalismo su più di 2300 giornalisti.
Dallo studio Agcom emergono innumerevoli spunti di riflessione e l'auspicio è che essi possano tradursi in stimoli per i decisori istituzionali, chiamati a varare normative in grado di riequilibrare e redistribuire le risorse e di riqualificare alcune professionalità come quella giornalistica. Ma in che modo? I dati sono impietosi. Negli ultimi cinque anni i media tradizionali (giornali, radio e Tv) hanno perso quasi due miliardi di euro, circa il 16% dei ricavi complessivi, con cali addirittura del 30% nel settore dei quotidiani. Internet è l'unico mezzo che mostra ricavi in crescita, ma la sua incidenza sui ricavi complessivi rimane relativa (circa 15%) e la parte informativa del web non appare in grado di autosostenersi con le risorse a disposizione. Siccome però le modalità di fruizione dell'informazione stanno profondamente mutando con la diffusione di smartphone e tablet e interessano fasce sempre più giovani di informazione (un internauta su tre condivide le notizie sui social network), occorrerà iniziare a sperimentare con determinazione modelli di news a pagamento basati anche sull'interattività e in grado di garantire un valore aggiunto all'utente, che peraltro si dichiara disposto a contribuire, in alcuni casi, ai costi di produzione delle news.
Non è un mistero che nei media tradizionali i meccanismi di finanziamento siano al collasso. Non sempre il denaro proveniente da lettori e inserzionisti basta a coprire le spese, anche perché il crollo delle vendite ha inciso sulla riduzione degli introiti: dieci anni fa i giornali vendevano 5,5 milioni di copie al giorno, mentre l'anno scorso sono arrivati a 3,5 milioni. E il digitale non si mostra assolutamente in grado di bilanciare queste perdite. Nel 2010 gli incassi complessivi per pubblicità e vendita di copie elettroniche sono stati pari a 145 milioni, mentre l'anno scorso hanno raggiunto i 204 milioni. Solo 60 milioni di entrate in più in cinque anni, mentre, come si è detto, l'editoria tradizionale nell'ultimo lustro ha perso due miliardi di ricavi (un miliardo soltanto nei quotidiani cartacei). E l'impoverimento del mercato va a incidere sulla qualità dell'informazione. Aumentano le ore di lavoro nelle redazioni ma il giornalista deve lavorare su più fronti, ha meno tempo per vagliare le fonti, per controllare i testi e la scrittura risulta meno curata.
E neppure sul versante del pluralismo la moltiplicazione numerica dei mezzi ha accresciuto l'effettiva apertura del mercato. La digitalizzazione dell'informazione ha provocato un abbassamento delle barriere di ingresso nel mercato dell'informazione, con un maggior numero di attori in campo, ma le concentrazioni in alcuni casi si sono amplificate. I rimedi non sono semplici da individuare. Anzitutto, come detto, bisogna ridimensionare il modello del "tutto gratis in Rete", che produce una svalutazione del prodotto giornalistico e uno svilimento del lavoro dei giornalisti. In secondo luogo, i tempi appaiono maturi per una riforma dell'Ordine dei giornalisti, che ne rilanci la funzionalità e ne snellisca la struttura. Sul piano strettamente fiscale, occorre invece un'uguaglianza di trattamento tra soggetti, visto che editori e broadcaster sono al momento assoggettati a tassazioni più elevate rispetto agli operatori di internet.
Rimpinguare le casse del Fisco italiano potrebbe mettere lo Stato nelle condizioni di rivitalizzare i bilanci delle imprese editoriali e di dare linfa nuova al mercato di produzione delle notizie, a patto che gli editori accettino di reinvestire eventuali nuovi introiti nel lavoro giornalistico e nell'innovazione tecnologica. Ricerche come quella condotta da Agcom possono quindi favorire una presa di coscienza delle sfide in atto nel mondo dei media e aprire nuovi varchi di riflessione tra gli addetti ai lavori. Ma l'analisi da sola non sarà sufficiente se non seguiranno soluzioni incisive e di ampio respiro strategico.