L'inferno di Moria. La Grecia scoppia di immigrati
Sono state le misure per testare e tracciare gli immigrati positivi al Covid che hanno fatto scoppiare la ribellione nel campo di Moria, sull'isola egea di Lesbo (Grecia). L'incendio ha lasciato senza dimora più di 10mila profughi che cercano di raggiungere il continente. Un inferno, ultimo segnale di un'immigrazione clandestina che la Grecia non può permettersi di tollerare a lungo
I buonisti irresponsabili dei “porti aperti”, dei “viaggi della speranza”, dei migranti “vittime della cultura dello scarto”, “visite di Dio” sono corresponsabili di immani, irreparabili tragedie umane. “L’Europa? Non credo più che esista. Questo è l’inferno”. A dirlo è Scotti Kele, originario della Repubblica democratica del Congo. Ha perso tutto il poco che aveva negli incendi dolosi che nella notte dell’8 settembre hanno distrutto il campo emigranti più grande d’Europa, quello di Moria, sull’isola greca di Lesbo. È scampato al fuoco con i vestiti che aveva addosso e niente altro: come lui, oltre 12mila persone, costrette a dormire all’aperto, nei campi, nei parcheggi e ai bordi delle strade, in attesa di aiuto.
Già la vita a Moria era estremamente disagevole a causa del sovraffollamento – fino a 13.500 ospiti in una struttura pensata per 3mila – al quale il nuovo governo greco vincitore delle elezioni del luglio 2019 stava tentando di porre rimedio con un progetto di ridistribuzione che però è stato sospeso all’insorgere dell’emergenza COVID-19. Adesso, a causa dell’incendio, si prospetta ancora più difficile, benché le autorità greche si siano subito attivate inviando un traghetto in grado di ospitare mille persone seguito da due navi che ne ospiteranno temporaneamente altre mille, iniziando ad allestire delle strutture provvisorie nei pressi del campo devastato e, a partire dal 14 settembre, avviando le procedure sanitarie per ammettere quante più persone possibile nel vicino campo di Kara Tepe.
A complicare la situazione c’è la necessità di contenere la diffusione del COVID-19 nell’isola. Molti emigranti hanno cercato di raggiungere i centri abitati e i porti più vicini nella speranza di poter lasciare Lesbo. La polizia è intervenuta a impedirlo, costretta a usare anche i lacrimogeni. Occorre adesso individuare le persone contagiate e metterle in quarantena in un contesto di scarsa collaborazione e persino di aperta ostilità. Proprio il rifiuto della quarantena sembra essere all’origine degli incendi, scoppiati in diversi punti del campo poche ore dopo che 35 persone erano risultate positive ai test. Il governo greco sostiene che ad appiccarli siano stati gli emigranti, per protesta contro le misure di isolamento decise dalle autorità del campo. Alcuni emigranti invece accusano gli abitanti dell’isola, esasperati per il fatto che Lesbo ormai da anni patisca le conseguenze economiche e sociali negative della crisi migratoria. In questo clima teso, il progetto del governo greco di costruire un nuovo centro permanente di accoglienza e identificazione, meglio attrezzato e funzionale, non piace a nessuno. Gli abitanti di Lesbo sono contrari perché ritengono che sia insostenibile per la loro piccola isola. Gli emigranti non lo vogliono perché chiedono di essere riallocati in altri paesi UE, meta ultima dei loro viaggi.
“I greci non vogliono i rifugiati – dice una emigrante afghana intervistata dalla Bbc – ci costringono a vivere come bestie”. Naturalmente non è vero. Come in Italia, anche in Grecia nessuno rifiuta accoglienza ai rifugiati. Il problema è che, proprio come in Italia, i rifugiati a Lesbo sono pochi, anche se tutti risultano richiedenti asilo, il consueto espediente per non essere respinti e rimpatriati. Circa il 70% dei richiedenti asilo attuali provengono dall’Afghanistan, gli altri appartengono a decine di diverse nazionalità. La maggioranza sono maschi giovani. Il parlamento greco lo scorso 31 ottobre ha approvato una legge sulla protezione internazionale che accelera le procedure di esame delle richieste – fino ad allora cinque o sei anni di attesa per conoscere l’esito – al fine di integrare più rapidamente chi ottiene lo status di rifugiato. Ma i tempi restano lunghi: i casi, di nuovo come in Italia, sono decine di migliaia e le verifiche non sono semplici. “Il tempo non è dalla nostra parte – aveva detto a ottobre il ministro della protezione civile Michalis Chrysohoidis spiegando che con la nuova legge le richieste di asilo potranno essere espletate entro 60 giorni – le barche arrivano attraversando il mar Egeo, ne arrivano sempre di più ogni giorno che passa”. Nel 2019 in Grecia sono sbarcati quasi 68mila emigranti irregolari: altrettanti casi da esaminare che si sono aggiunti ai 68mila arretrati. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis aveva detto al parlamento prima del voto che la legge intendeva mandare un messaggio chiaro: “La misura è colma. Basta con persone che sanno benissimo che non hanno diritto all’asilo e tuttavia tentano di entrare e stare nel nostro paese”. Dall’inizio del 2020 di emigranti irregolari ne sono arrivati altri 11.971.
La Grecia, come l’Italia, reclama invano l’intervento UE. Per ora, su sollecitazione di Germania e Francia, 10 stati europei hanno accettato di ospitare 400 minori non accompagnati di Moria, già trasferiti sulla terra ferma da dove dovrebbero raggiungere presto le rispettive destinazioni. Si parla anche di riallocazione di rifugiati nei paesi UE: di rifugiati, appunto, non di richiedenti asilo. Ma ai rifugiati la Grecia, come l’Italia, è in grado di provvedere con i propri mezzi e di sicuro è ben disposta a farlo, come ha fatto finora.