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LA TESTIMONIANZA

L'inferno dell'Afghanistan narrato da chi ne è uscito

Farhad Bitani, ex ufficiale dell'esercito nazionale afgano, è nato sotto l'occupazione sovietica, è cresciuto sotto i Talebani ed è diventato adulto nel corrotto e violento Afghanistan post-talebano. Alla fine, nel 2011, è fuggito in Italia. Ne L'ultimo lenzuolo bianco racconta una storia di ordinario abbrutimento.

Esteri 28_12_2014
L'ultimo lenzuolo bianco

L’infanzia e l’adolescenza di un figlio di mujaheddin: a raccontarle è Farhad Bitani, ex capitano dell’esercito afghano, in un libro autobiografico che meriterebbe di essere letto dagli studenti italiani, ben più di altri testi: perché abbiano un’idea di come vivono, da vincitori e da sconfitti, i loro coetanei nati e cresciuti in paesi in guerra e perché capiscano qualcosa di più di una nazione, l’Afghanistan, per cui decine di militari italiani hanno dato la vita nel tentativo di riportarvi pace, libertà e giustizia. 

Farhad è nato nel 1986, durante la dominazione sovietica. Ha trascorso l’infanzia, dopo il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, godendo dapprima del benessere e dei privilegi che gli derivavano, pur sotto la minaccia di un conflitto etnico feroce, dal fatto di essere figlio di un generale, e poi, durante il regime talebano, dal 1996 al 2001, piombando con la sua famiglia in un incubo di povertà, fame e insicurezza, dopo l’arresto e l’incarcerazione del padre che contro i talebani aveva combattuto. La sua sorte è di nuovo, e definitivamente, cambiata in meglio con l’attacco Usa, dopo l’11 settembre 2001, e la sconfitta dei talebani. Da allora, infatti, suo padre è stato reintegrato nell’esercito nazionale con il grado di generale ed è tornato ad essere uno degli uomini più potenti e temuti del paese. 

Da piccolo, quando i mujaheddin erano di casa e i suoi fratelli maggiori già combattevano a fianco del padre, ha giocato alla guerra, come tanti bambini; ma con armi vere: “portare le armi era un onore e una necessità per la difesa personale. Tutti erano vestiti con abiti militari. Entravano in salotto e buttavano i kalasnikov o i lanciarazzi RGP in un angolo, (…) io ci giocavo. Anche i miei amici giocavano con le armi. Giocavamo alla guerra. Io ero sempre il comandante. (…) Volevo diventare un guerriero con tante persone al seguito, tutti a cavallo. Come mio padre. Che arrivava a casa dopo molti giorni di guerra”.

Da grande Farhad Bitani sarebbe diventato davvero un guerriero, addestrato e arruolato nell’esercito con il grado di capitano. Ma, prima, ha conosciuto il rigore dei talebani. Scomparsi gli aquiloni nei cieli di Kabul, proibito ogni svago, allo stadio lui e i suoi concittadini andavano per assistere alle esecuzioni e per lapidare le adultere. La sua piccola vita, più ancora che dai disagi materiali di una famiglia caduta in disgrazia, è stata segnata allora dal furore religioso degli “studenti” di Allah. Tra i ricordi di quegli anni, emerge la volta che i talebani hanno arrestato per strada suo cognato perché non aveva la barba abbastanza lunga. Farhad piangeva terrorizzato: “ma per loro non ero un bambino – scrive – ero soltanto qualcosa che faceva rumore”. Ricorda anche l’ossessione del turbante che era obbligato a indossare: “la striscia di stoffa mi si ingarbugliava tra le mani. Era mia madre che mi preparava. Se sentivo che si stava allentando, andavo in giro tenendomi la testa con le mani (…). Se mi si sfilava e andavo a scuola senza turbante, il maestro mi dava venti bacchettate sulle mani. (…) Una volta mi hanno anche rotto un dito infilando la penna sotto il dito medio e premendo con forza”. 

Nel 2003, con il padre di nuovo comandante militare, tutto cambia. Farhad ha 17 anni e il mondo è ai suoi piedi: “I dollari americani arrivavano come pioggia – racconta – i capi, anziché utilizzarli per il paese, nutrivano i loro conti nelle banche svizzere e, quello che avanzava, lo davano ai figli che lo sperperavano”. Lui, per prima cosa, si compra una macchina nuova con cui scorazza per le vie di Kabul: “non mi ha mai fermato nessuno. Se qualcuno mi avesse fermato, lo avrei fatto picchiare dalla scorta”. Ma acquista anche degli aquiloni bellissimi con cui di nuovo si può giocare: senza più incorrere nelle ire degli integralisti, ma non senza pericolo per chi osa sfidare nella gara di resistenza il rampollo di una famiglia importante, viziato e prepotente al punto di non ammettere una sconfitta ed essere disposto a uccidere l’avversario, come un giorno stava per fare un amico di Farhad. 

Anche Farhad non è da meno per capricci e prepotenza. Un giorno vede per strada un Toyota Land Cruiser nuovo di zecca. Ferma il proprietario, un imprenditore, e gli propone di acquistarlo. Al suo rifiuto, va dal capo della polizia: “zio, lo voglio” dice, e il capo della polizia convoca l’imprenditore, si fa consegnare le chiavi della vettura e lo manda via con in cambio l’auto del nipote. 

Ma attorno a lui succedeva di peggio: festini organizzati dai suoi amici con bimbi, presi chissà dove e a chissà chi, usati come trastulli, bambine strappate alle famiglie da capi anziani invaghitisi di loro…

Non sono gli orrori della guerra, quelli che descrive Farhad che pure li ha vissuti, ma quelli di una ordinaria quotidianità contaminata senza rimedio dalla corruzione morale di un ceto sociale che agisce irresponsabilmente, senza ammettere né incontrare limiti, usando e sciupando cose e persone per il proprio piacere e tornaconto, compiacendosi della consapevolezza di poterlo fare, a dimostrazione di un potere incontrastato.

Tali erano all’epoca dei mujaheddin la violenza – “una crescita esponenziale sui bambini e sulle donne” – e la corruzione – “tutti i monumenti e le cose antiche sono stati venduti e rubati” – che dapprima i talebani vennero accolti come una liberazione, per scoprire subito dopo che nulla era cambiato, salvo i detentori del potere. Né sarebbe cambiato in seguito, con la loro sconfitta. 

Da tutto ciò Farhad si è affrancato nel 2011, dopo essere stato vittima di un attentato. Durante la convalescenza, è iniziata la crisi che lo ha indotto a lasciare quel mondo. Vive in Italia, adesso. I suoi parenti e i suoi amici di un tempo non si spiegano la sua scelta: sospettano che sia diventato cristiano o semplicemente lo giudicano uno stupido, per aver rinunciato a lussi, potere e a una sicura carriera militare e politica, ai vertici della società afghana. Ha scritto un libro in cui racconta i primi 27 anni della sua vita e la verità, così come gli appare, sul suo paese: si intitola L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan, pubblicato nel 2014 da Guaraldi. “Ho un tremendo bisogno di verità. Pronunciare la verità – ha scritto nella premessa – è un piccolo gesto, in fondo. La vera sfida è accettarla. E, ancor di più, accoglierla come propria storia personale. Perderò delle amicizie, delle relazioni. Ma non mi importa. L’ho messo in conto. Soltanto la verità può liberare il mio Paese”.