L'Indice Ibrahim ci dice come sta l'Africa: sempre peggio
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A Londra è stato presentato l'Indice Ibrahim della governance africana, uno strumento per misurare lo stato di salute dei 54 paesi africani. Un bilancio sostanzialmente negativo e allarmante.
Il 23 ottobre è stato presentato a Londra l’Indice Ibrahim della governance africana 2024. Si tratta del rapporto sulle performance e le tendenze della governance nei 54 stati africani, pubblicato ogni due anni dalla Mo Ibrahim Foundation, l’istituto di ricerca creato nel 2006 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim con lo scopo di monitorare, valutare e migliorare la gestione della vita politica nel continente africano, intesa come fattore chiave per lo sviluppo e il progresso.
I dati e le analisi contenuti nel rapporto sono un importante contributo perché opera di ricercatori e studiosi africani che, grazie alla fondazione, dispongono di avanzati strumenti di ricerca. I dati utilizzati provengono da 49 fonti indipendenti. I risultati e la loro valutazione si basano su 322 variabili raggruppate in 96 indicatori. Il periodo preso in considerazione quest’anno è il decennio 2014-2023. Come nelle altre edizioni, le categorie individuate sono quattro, ciascuna suddivisa in 16 sottocategorie: sicurezza e stato di diritto; partecipazione, diritti e inclusione; basi delle opportunità economiche; sviluppo umano.
Pur tenendo conto della grande diversità degli sviluppi e delle tendenze che caratterizza i 54 stati africani, i ricercatori del rapporto Mo Ibrahim ritengono di poter formulare un bilancio complessivo della situazione a livello continentale e – dicono – si tratta di un bilancio sostanzialmente negativo e allarmante. Il progresso della governance in Africa – sostengono infatti – si è fermato nel 2022, a seguito di quattro anni di quasi totale stagnazione, e questo perché la possibilità di miglioramenti sostanziali sia nello sviluppo umano sia nella crescita economica è stata compromessa dal costante deterioramento della sicurezza e della democrazia.
Questo bilancio generale presenta tuttavia significative differenze se si osservano le quattro categorie considerate e le rispettive sottocategorie. Quella delle infrastrutture, ad esempio, è la sottocategoria che ha registrato più progressi nel decennio, in particolare nell’accesso alle comunicazioni mobili, a Internet, ai computer e all’energia. Quasi altrettanto notevoli sono i progressi rilevati nella sottocategoria Uguaglianza delle donne. In entrambi i casi si può dire che nel 2023 circa il 95% degli abitanti del continente vivono in paesi in cui sono stati raggiunti risultati di gran lunga migliori rispetto al 2014.
Per contro, tutte le sottocategorie relative alla sicurezza e alla democrazia mostrano un deterioramento nel corso del decennio. I dati peggiori riguardano le sottocategorie Sicurezza e protezione e Partecipazione. Nel complesso il 77% degli africani vivono in paesi in cui la situazione risulta nettamente peggiore nel 2023 rispetto al 2014.
Quanto alla percezione che gli africani hanno dello stato dei paesi in cui vivono – decisiva per determinare il giudizio sulle leadership al potere, per la fiducia che in esse può essere riposta e per le aspettative individuali e collettive per il futuro – il rapporto sottolinea che, anche dove si sono registrati dei progressi, e in settori chiave, tuttavia si è riscontrata in generale una crescente frustrazione. A eccezione della percezione generale relativa alla leadership femminile, tutti gli altri indicatori sono negativi anche nei settori in cui si sono verificati dei progressi. L’indicatore peggiore, dei 96 utilizzati, è quello della percezione pubblica delle opportunità economiche che nel 2023 risulta sceso di 12,4 punti rispetto al 2014.
Per quanto riguarda i singoli Stati, sono 13 quelli che hanno seguito un percorso positivo e nel complesso hanno conseguito progressi nella governance, alcuni anche dopo il 2019. Sono Seychelles, il Gambia, Sierra Leone, Angola, Mauritania, Gibuti, Malawi, Marocco, Costa d’Avorio, Togo, Somalia, Egitto e Madagascar.
11 paesi, invece, hanno seguito un percorso opposto e scontano una sensibile e preoccupante tendenza negativa durante tutto il decennio, con un peggioramento ulteriore a partire dal 2019. Quattro – Mauritius, Botswana, Namibia, Tunisia – figurano ancora tra i migliori paesi per governance, ma la situazione si è notevolmente deteriorata. Gli altri sono Isole Comore, Mali, Burkina Faso, Repubblica democratica del Congo, Niger, Eswatini (ex Swaziland) e Sudan, quest’ultimo il peggiore, travolto da una crisi politica e umanitaria a causa della guerra scoppiata nell’aprile del 2023.
Va sottolineato che la relativa stabilità economica e politica di alcuni paesi nei quali non vi sono state significative variazioni nella governance si deve non tanto a performance positive quanto alla lunga permanenza al potere di leader abili e con assai pochi scrupoli: Teodore Nguema in Guinea Equatoriale dal 1979, Paul Piya in Camerun dal 1982, Yoweri Museveni in Uganda dal 1986, Isaias Afewerki in Eritrea dal 1993, Paul Kagame in Rwanda dal 1994. Sono paesi che rientrano nella definizione di “democrazia imperfetta”. Eppure si guarda con apprensione al momento in cui perderanno i loro leader, alcuni ormai avanti negli anni, e si scatenerà la lotta per la successione. Alla stessa categoria appartengono paesi in cui le elezioni presidenziali danno risultati eclatanti: l’Algeria, ad esempio, dove a settembre il presidente in carica, Abdulmadjid Tebboune, è stato rieletto con il 95% dei voti, o la Tunisia dove il presidente Kais Saied si è ricandidato, dicendosi sicuro vincere anche perché era riuscito a far escludere dalla competizione tre importanti avversari, e ha ottenuto il 90,69% dei voti.