L'inarrestabile forza della vita
Sara, in due anni due gravidanze inaspettate e difficili da portare avanti, un bimbo che nasce e poi muore, la vita che trionfa.
Mia carissima Sara, in questo periodo sto ripensando a tante storie di donne incontrate negli anni e non posso davvero dimenticarmi di te e della nostra amicizia.
Da circa un anno stai al di là dell’oceano visto che sei ritornata nella tua terra, il Perù, ma ciò che abbiamo vissuto insieme rimane singolare nella mia storia e nei miei affetti.
Ti ricordi, sei arrivata una mattina spaventata e triste, così spaventata e triste che il tuo “Permesso” sembrava un soffio di vento.
Ti pregai di accomodarti ma non volesti sederti sul divano ma sul “pouf” che sta a fianco della mia poltrona per essermi più vicina.
Dire che sembravi un pulcino bagnato non è niente; mi guardavi silenziosa e non osavi iniziare la conversazione.
“Io mi chiamo Paola, e lei?”
Seppi così che ti chiamavi Sara, che venivi dal Perù dove avevi lasciato i tuoi tre figli e che eri incinta di un uomo incontrato in Italia, Josè, di cui ti sentivi molto innamorata.
“Non solo sono gravida, ma aspetto due gemelli! E Josè, che sembra buono e caro, spesso mi lascia da sola per andare a divertirsi con i suoi amici. Sono veramente disperata e non so che cosa fare; come la prenderanno i miei figli? A loro devo inviare soldi ogni mese, perché la scuola costa tanto e io devo lavorare perché continuino a studiare!”
Le parole ti uscivano a fatica e le guance ti si bagnavano di pianto.
Dopo tante storie ascoltate negli anni, ancora mi sento rimescolare quando i problemi sono tanti e tutti difficili.
Ti guardai, cercavo di inventarmi qualcosa per superare tutti quegli ostacoli; eri seduta lì vicino e ti toccai la mano: “Come è stata coraggiosa, Sara, a venire in un paese straniero di cui non conosceva nemmeno la lingua; sicuramente l’ha fatto per i suoi figli ma probabilmente io non sarei stata capace di affrontare tutte queste difficoltà.” Mi guardasti come se stessi dicendo la cosa più impensabile del mondo! Ti asciugasti le lacrime e poi:
“Non è stato facile! Ogni cosa era nuova, non sapevo come sistemarmi e, poi, il lavoro, i figli lontani, la paura di non farcela, …”
“Ho dunque ragione di dire che è stata molto coraggiosa? E dove l’abbiamo persa tutta quella grinta?”
“E’ la prima volta che ci penso! Sì, è vero, credo anch’io di essere stata coraggiosa.
Ora invece mi sento fragile ed è come se non avessi più forza.”
Minuti di silenzio durante i quali continuavi a torcerti le mani come per punirti della situazione in cui ti trovavi; minuti di silenzio preziosi per riprendere fiato e trovare la voglia di alzare la testa per andare avanti ancora e ancora.
Ti dissi allora:
“Mi sembra di capire che i figli siano il problema più grande. E se la aiutassimo noi ad avere quei benedetti soldi da mandare a casa e a procurarle il necessario per i gemelli?”
Un singulto ti uscì dalla gola, mi accarezzasti la mano e, finalmente, dicesti il tuo “sì” alla Vita.
Il tuo pancione diventava sempre più grande e io ti prendevo in giro, toccandotelo, dicendoti che eri una culla ambulante.
Nacquero Arianna e Fabio, due bei bambini che riempivano la tua vita di impegno ma anche di allegria, facendoti un po’ dimenticare le scappatelle di Josè.
A volte, quando trovavi qualcuno che ti accompagnasse, riuscivi anche a venire a trovarci ed era sempre una festa.
E, di nuovo, il “grande problema”:
“Mi vergogno tanto, mi do della stupida, sono arrabbiata con me stessa e con Josè; una sera aveva forse un po’ esagerato con la birra, mi ha preso quasi per forza, ed ecco, sono di nuovo incinta, ma questa volta non posso, non posso e andrò ad abortire.”
Tu stavi male ma, credimi, anch’io mi sentii crollare il mondo addosso.
“Continua a volermi bene, Paola!”
Con una certa fatica riuscii a guardarti lambiccandomi il cervello per immaginare qualcosa da dire e da fare.
”Non sei da sola e lo sai. Fammi capire che cosa può aiutarti ad accettare anche la vita di questo bambino e proveremo a procurarlo.”
“E’ che io avevo già trovato un posto di lavoro per quando, fra due mesi, i gemelli fossero andati al nido, ma così non mi prenderanno di certo.”
Ed ecco la “lampadina”:
“In consultorio la persona che viene a fare le pulizie ha detto che ha intenzione di tornare al suo Paese; forse potresti prendere tu il suo posto.”
Anche allora fosti una donna coraggiosa, Sara! Non eri al massimo della felicità ma anche Paolo riuscì ad arrivare. “Paolo, perché è tuo” mi dicesti allora.
So bene che in alcuni momenti ti sentivi davvero stanca, eri, però, riuscita a fare amicizia in parrocchia, avevi anche trovato una casa più adatta, il comportamento di Josè non ti creava troppo malessere.
Dopo fu la tragedia!
Quante volte avrai ripensato a quel fine settimana!
Josè, naturalmente, era uscito e tu ti sentivi probabilmente sfinita di lavoro e di frustrazioni; ‘Fabito’ non stava bene, la pediatra ti avrà dato il solito antibiotico, perché era sabato e non poteva visitarlo.
Eri andata in farmacia? Probabilmente no, proprio perché a casa da sola con i bambini, e la farmacia di turno chissà come avresti potuto raggiungerla.
Trascorre una parte della notte; ti accorgi che Fabio sta sempre peggio, ma senza piangere, forse solo lamentandosi un po’.
Così, se n’è andato, andato per sempre a giocare nei pascoli del cielo.
Al suo funerale la gente era proprio tanta e tu, dopo un momento di disperazione incontenibile, restavi ferma al tuo posto.
Davanti alla Chiesa, le persone ti abbracciavano con l’illusione buona di lenire il tuo dolore; io non osavo avvicinarmi perché quello, quello dello strazio di una madre che ha definitivamente perso suo figlio, mi sembra un dolore tanto infinito da diventare intoccabile.
Tu però mi cercavi, l’affetto che ci unisce rendeva non credibile la mia assenza.
Così mi hai visto e sei arrivata scostando le persone che ti stavano intorno, per farti abbracciare ancora.
Sembrava che nessuno potesse portarti via dalle mie braccia!
Ecco la processione dietro la piccola bara bianca fino al cimitero; siamo state sempre vicine anche quando la piccola bara è scesa nella buca già preparata.
Ho nel cuore il tuo grido, il nome del tuo bambino.
Abbracciate siamo state lì impietrite, ma poi si doveva venire via.
Dopo quel giorno ti ho rivisto tante volte, Sara, ma stampata dentro di me, c’è quell’immagine: tu, la madre, seduta sulla panchina del cimitero, che allattavi il piccolo Paolo.
Al mio bacio di saluto, sei riuscita anche a sorridermi, quasi a dirmi che la forza della vita è inarrestabile.
Ora siamo fisicamente molto lontane, ma ci unisce un sentimento forte e sento ancora il calore del tuo abbraccio.
Non ti dimenticherò, Sara!