ARTE E CATECHESI/8
L'immagine sacra, Dio che si fa visibile
L’arte della Chiesa è annuncio di Dio, testimonianza dell’infinito che attraversa la vita. Ricorda che l’eterno c’entra con quanto è già qui, adesso.
Cultura
06_08_2011
Se si sale sulle Alpi che confinano con la Svizzera e si fa visita a quelle chiese montane che lì svettano rustiche e solenni, capita, non di rado, di trovarsi davanti ad opere di sorprendente bellezza: crocifissi, pale d’altare, sculture della Vergine, di santi e sante, apostoli e vescovi, e poi arcangeli schierati a battaglia, e demoni incatenati.
Opere schiette, anche quando hanno una parlata foresta. Molte infatti sono di produzione sveva o alto-renana, a volte anche bavarese. Il fatto che meraviglia è che ci si trova davanti a opere d’arte degne di cattedrali, e mentre le si contempla ci si chiede come facciano ad essere lì, in valli dove tutta la ricchezza era il burro fatto in giornata. Di sicuro molte di queste sono state normalmente commissionate. Ma di molte altre si può dire che furono letteralmente e fortunosamente salvate. Ecco il perché.
Le Alpi fanno da confine. Dopo i primi decenni del ‘500 bastava oltrepassare qualche valico per incontrare dall’altra parte i cristiani della Riforma protestante. Riforma che fin dal principio ha guardato con sospetto le immagini d’arte sacra, accusandole di essere ostentazione di ricchezza, fonte di superstizione, causa di idolatria. Nei primi anni, ebbe esiti anche violentemente iconoclasti. Giusto per citare un caso eclatante: a Basilea, il mercoledì delle ceneri del 1529, furono distribuiti alla popolazione più povera pezzi di sculture distrutte.
L’ammontare delle opere perdute in quel periodo per lo spoglio delle chiese è incalcolabile: tele bruciate, sculture frantumate, affreschi scalpellati, vetrate infrante. Molte invece si salvarono perché giunsero nelle chiese cattoliche, appena al di qua del confine, e riutilizzate. Infatti, mercanti e someggiatori che attraversavano regolarmente i valichi alpini, si misero a caricare sui muli, assieme al formaggio, anche vetrate, sculture, altaroli, paramenti liturgici, portandoli in salvo. Alla fine, non sappiamo se lo facevano per fede o per calcolo di un ritorno economico: in ogni caso, è il modo attraverso cui splendide testimonianze di fede e di arte sono giunte fino a noi.
Questo esempio storico, qui delineato molto brevemente, fa comprendere come non sia per nulla scontato trovare delle immagini di carattere sacro in una chiesa.
Le immagini sacre hanno una loro forza: incantano i sensi, muovono i sentimenti, fanno piegare le ginocchia. Indubitabilmente la potenza delle immagini comporta anche un rischio: l’idolatria. È facile cadere nella confusione, ridurre la divinità ad un’opera fatta da mano umana e pensare che sia un pezzo di legno ad elargire miracoli.
La Riforma protestante, proprio riconoscendo la forza e il rischio insiti nelle immagini, fece delle scelte drastiche: le tolse di mezzo. La Parola di Dio, affermavano i riformatori, essendo di natura spirituale, non può che trovare ostacoli nelle immagini materiali.
La Chiesa cattolica invece, in particolare con il Concilio di Trento, non le abolì, ma ne regolamentò la realizzazione affinché non fossero motivo di errore e idolatria.
Lo si può vedere, ad esempio, in Val Formazza. Questa, infatti, è proprio una di quelle terre alte che confinano con la Svizzera. Per secoli, ha visto mercanti e someggiatori attraversare i suoi valichi (come il Passo del Gries e quello di San Giacomo). La sua gente, di origine walser, parla un antico dialetto svizzero, ma è rimasta sempre cattolica. Nella piccola chiesa di San Michele, c’è una frase che campeggia sulla trave dell’arco trionfale: «Christum et non istum sed Christum adoro per istum». Che possiamo tradurre con: Io adoro Cristo e non questo ( sottinteso “manufatto”, come può essere un crocifisso, un dipinto, una statua, ecc.) ma adoro Cristo attraverso questo (manufatto).
Questa frase riprende un passo preciso del Decreto sulle sacre immagini, stabilito durante il Concilio di Trento nel 1563, che attesta che alle immagini sacre si può attribuire la dovuta venerazione ma non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità come un tempo facevano i pagani, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano: «Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano l’immagine. Cosa già sancita dai decreti dei concili – specie da quelli del secondo Concilio di Nicea – contro gli avversari delle sacre immagini».
È dunque un insegnamento che mette in guardia dall’idolatria, ma che allo stesso tempo ribadisce il valore dell’immagine sacra. E lo fa riprendendo l’antica tradizione della Chiesa e quanto già sancito dal Secondo Concilio di Nicea (787): poiché il Verbo si è fatto carne, poiché si è degnato di abitare nella materia e di operare la salvezza attraverso la materia, allora l’arte della Chiesa non è idolatria ma annuncio che Dio si è reso visibile. L’arte testimonia la nuova dignità del creato. La bellezza diventa, non tanto salvezza in sé, ma un anticipo di infinito sulla terra. È splendore che irrompe nella fatica del lavoro e dei giorni. Ricorda che l’eterno c’entra con quanto è già qui, adesso.
Lo si può vedere, ad esempio, in Val Formazza. Questa, infatti, è proprio una di quelle terre alte che confinano con la Svizzera. Per secoli, ha visto mercanti e someggiatori attraversare i suoi valichi (come il Passo del Gries e quello di San Giacomo). La sua gente, di origine walser, parla un antico dialetto svizzero, ma è rimasta sempre cattolica. Nella piccola chiesa di San Michele, c’è una frase che campeggia sulla trave dell’arco trionfale: «Christum et non istum sed Christum adoro per istum». Che possiamo tradurre con: Io adoro Cristo e non questo ( sottinteso “manufatto”, come può essere un crocifisso, un dipinto, una statua, ecc.) ma adoro Cristo attraverso questo (manufatto).
Questa frase riprende un passo preciso del Decreto sulle sacre immagini, stabilito durante il Concilio di Trento nel 1563, che attesta che alle immagini sacre si può attribuire la dovuta venerazione ma non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità come un tempo facevano i pagani, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano: «Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano l’immagine. Cosa già sancita dai decreti dei concili – specie da quelli del secondo Concilio di Nicea – contro gli avversari delle sacre immagini».
È dunque un insegnamento che mette in guardia dall’idolatria, ma che allo stesso tempo ribadisce il valore dell’immagine sacra. E lo fa riprendendo l’antica tradizione della Chiesa e quanto già sancito dal Secondo Concilio di Nicea (787): poiché il Verbo si è fatto carne, poiché si è degnato di abitare nella materia e di operare la salvezza attraverso la materia, allora l’arte della Chiesa non è idolatria ma annuncio che Dio si è reso visibile. L’arte testimonia la nuova dignità del creato. La bellezza diventa, non tanto salvezza in sé, ma un anticipo di infinito sulla terra. È splendore che irrompe nella fatica del lavoro e dei giorni. Ricorda che l’eterno c’entra con quanto è già qui, adesso.
Lo sapeva bene anche un antico valligiano della Formazza che, in frazione Valdo, sul bordo del suo tavolo in noce, intagliò questa scritta in dialetto walser: «Trinck und is und Got nit fergis». Bevi e mangia e Dio non dimenticare.