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IL CASO

Libertà religiosa? Dove non c'è si muore

Un'indagine sociologica mostra che limitare il culto amplifica l'intolleranza e garantire invece l'espressione della fede genera sviluppo.

Attualità 21_06_2011
persecuzioni Per la Giornata Mondiale della Pace 2011 Benedetto XVI ha scelto il tema della libertà religiosa come via necessaria per la pace e la prosperità. Senza citare Benedetto XVI, due sociologi statunitensi - Brian J. Grim e Roger Finke - dimostrano precisamente la stessa tesi in una delle opere di sociologia delle religioni più importanti degli ultimi anni, The Price of Freedom Denied. Religious Persecution and Conflict in the Twenty-First Century ("Il prezzo delle libertà negata. Persecuzione e conflitto religioso nel XXI secolo", Cambridge University Press, New York 2011).

I due sociologi applicano il metodo dell'economia religiosa, che si serve di modelli tratti dalla scienza economica per analizzare quanto avviene nel mondo delle religioni. Il problema cui si trovano di fronte è stato spesso affrontato. A parole, tutti gli Stati si dichiarano a favore della libertà religiosa, ma in pratica nella grande maggioranza dei Paesi del mondo oggi la libertà religiosa non è garantita. Le persecuzioni religiose non sono un fatto del passato. Organizzazioni non governative prestigiose ritengono che ogni anno il numero di cristiani uccisi per la loro fede vada dai 130.000 ai 160.000. I lettori più attenti ricorderanno che abbiamo già citato su La Bussola Quotidiana questa stima riportata da Grim e Finke, fermandoci a una valutazione più prudenziale di 105.000 morti cristiani all'anno, il che significa comunque uno ogni cinque minuti.

È possibile, si chiedono gli autori, elaborare una teoria generale della persecuzione e del conflitto religioso autenticamente sociologica? Per essere tale, la teoria non può limitarsi a descrivere che cosa succede. Deve anche identificare le cause e fornire delle spiegazioni, possibilmente suscettibili di applicazioni generali. Per quanto riguarda i dati, Grim e Finke hanno lavorato soprattutto sui rapporti sulla libertà religiosa prodotti da agenzie governative americane e su un ampio studio del Pew Research Center, di cui lo stesso Grim è coautore. Citano anche i rapporti annuali dell'Aiuto alla Chiesa che Soffre e, sul tema specifico delle misure contro le cosiddette "sette" in Europa, due studi del sottoscritto, di uno dei quali sono coautore con James T. Richardson. Costruiscono così una base di dati, che incrociano con una serie di variabili da identificare come possibili cause delle persecuzioni e dei conflitti religiosi. I risultati sono interessanti, perché dimostrano che molte idee correnti in materia di religione non resistono alla verifica empirica. Molte tesi esaminate nel testo si riducono a una: che la pace religiosa regna, e non c'è bisogno di persecuzioni, laddove lo Stato controlla con mano ferma le religioni, o favorendo una religione maggioritaria o comunque identificata con l'ethos delle istituzioni a danno delle altre, ovvero guardandole tutte con una più o meno malcelata ostilità.

Un complesso modello matematico mostra che questa teoria - attribuita dagli autori, forse in parte ingiustamente, anche a Samuel Huntington (1927-2008) e al suo schema dello scontro delle civiltà - è falsa. Ma alcuni esempi illustrati con dovizia di particolari non richiedono neppure molta matematica. Quando il Pakistan nacque, le minoranze religiose godevano in teoria, e con qualche limitazione anche in pratica, di un'ampia tolleranza. Il tentativo dello Stato di rispondere ai conflitti religiosi introducendo leggi che favoriscono l'islam sunnita ha moltiplicato le persecuzioni e la violenza religiosa, specie ai danni dei cristiani, anziché farle diminuire. Lo stesso è avvenuto in India, ogni volta che gli Stati dell'Unione Indiana hanno introdotto leggi contro le conversioni e contro i missionari per preservare l'identità indù della nazione. È importante notare che nel modello di Grim e Finke non importa se la libertà religiosa sia limitata in nome della preferenza per una religione, come in Pakistan o in India, o per l'ateismo, come in Cina. Nell'uno o nell'altro caso la repressione legale della libertà delle religioni genera persecuzione e conflitto e non pace religiosa. E non è neppure troppo rilevante il fatto che la grande maggioranza dei cittadini appartenga a un'unica religione. Questo accade, per esempio, in Arabia Saudita: ma anche qui ci sono minoranze sciite e immigrati cristiani, e dunque anche qui le leggi che negano la libertà religiosa generano persecuzione e conflitto.

Rovesciando la tesi corrente, Grim e Finke concludono che la causa principale della violenza e della persecuzione in materia di religione -evidentemente non l'unica, come mostra il caso esplicitamente richiamato di forme di terrorismo a base religiosa che attaccano Paesi dove la libertà religiosa è garantita - è costituita dalle leggi che limitano la predicazione e il culto. Più queste leggi sono presenti, più aumenta il numero delle vittime sia della persecuzione pubblica dello Stato - perché le religioni, invitate a cessare la loro attività, di solito non lo fanno e resistono - sia della persecuzione privata da parte si sostenitori della religione o dell'ideologia dominante, che si sentono incoraggiati dalle leggi restrittive a farsi giustizia, per così dire, da soli.

Grim e Finke prendono in considerazione
molto seriamente - dedicando al tema un ampio capitolo - l'obiezione secondo cui i numeri spaventosi della persecuzione e delle violenze, che colpiscono soprattutto i cristiani, si spiegano molto più semplicemente, per quanto forse in modo non politicamente corretto, con la rinascita dell'islam e del fondamentalismo islamico. L'obiezione, scrivono gli autori, ha un suo fondamento, dal momento che nel loro modello il livello di violazione della libertà religiosa nei Paesi a maggioranza islamica è in media quatto volte più alto che in quelli a maggioranza cristiana. Non è vero però - sostengono - che questo sia dovuto alla recente crescita del fondamentalismo islamico. Grim e Finke riesumano uno studio pionieristico sulle violazioni della libertà religiosa nel mondo condotto nel 1945 da Miner Searle Bates (1897-1978), un professore con un dottorato a Yale che all'epoca insegnava a Nanchino. Da questo studio emerge che nel 1945, dunque ben prima dell'esplosione internazionale del fondamentalismo islamico, il livello di violazioni della libertà religiosa nei Paesi a maggioranza musulmana corrispondeva più o meno a quello di oggi.

La causa non è dunque il fondamentalismo, ma - suggeriscono gli autori - l'applicazione della legge islamica, la shari'a, che è intrinsecamente ostile alla libertà religiosa. Dove la maggioranza è islamica, ma la shari'a non determina né influenza la legislazione in modo significativo, la situazione non è diversa da quella dei Paesi non musulmani della stessa area geografica. La shari'a emerge così come un caso particolare della regola generale cui gli autori ritengono di essere pervenuto: le leggi che limitano la libertà religiosa sono una fabbrica di violenze religiose. È vero - suggeriscono Grim e Finke in un capitolo conclusivo - anche il contrario. Dove regna la libertà religiosa, lì le crisi che nascono dalla religione generano solo un livello moderato di conflitto sociale. Gli autori insistono sull'esempio del Giappone, dove dopo la Seconda guerra mondiale consulenti americani proposero - o forse imposero - una legge molto favorevole alla libertà religiosa. Qui nel 1995 l'orribile attentato al gas sarin nella metropolitana di Tokyo perpetrato da membri del movimento millenarista Aum Shinri-kyo ha portato a severissime condanne dei colpevoli - in un Paese dove vige la pena di morte - ma non a un conflitto sociale generale intorno ai nuovi movimenti religiosi o alle "sette". Il governo ha perfino rifiutato le richieste di sciogliere Aum Shinri-kyo, molti membri del quale non erano a conoscenza dell'attentato. In un clima dove le leggi garantiscono la libertà religiosa non ci sono state esplosioni di violenza contro le "sette" e lo stesso Aum Shinri-kyo si è ridotto a un residuo insignificante senza bisogno di misure draconiane da parte dello Stato.

Gli autori notano anche che ad alti livelli di libertà religiosa corrispondono quasi ovunque eccellenti livelli di altre libertà e anche di sviluppo economico. Si dichiarano consapevoli di non avere dimostrato che a questa correlazione corrisponda un nesso causale, per provare il quale occorrerebbero ulteriori studi. Ma le coincidenze sono troppo numerose per essere semplicemente ignorate, e sembrano confermare la teoria - cara anche a Benedetto XVI - secondo cui la libertà religiosa non è semplicemente una in una lunga lista di libertà ma la radice di tutte le altre. Grim e Finke ricordano che gli antichi minatori calavano nelle miniere di carbone, prima di entrarvi, una gabbia con una coppia di canarini. Se i canarini morivano, era il segno che l'aria era irrespirabile e non era bene che nella miniera si calassero i minatori. Gli autori citano il giurista ebreo Michael Horowitz, il quale ha sostenuto che per secoli gli ebrei sono stati gli involontari canarini nella miniera delle libertà fondamentali. Dove gli ebrei erano perseguitati, lì non c'era libertà di religione e non regnavano neppure le altre libertà.

Nel XXI secolo
, ha scritto lo stesso Horowitz, i canarini nella miniera sono diventati i cristiani. Dove si uccidono i cristiani per la loro fede, lì non c'è libertà, lì - imitando la saggezza degli antichi minatori - a coloro che amano la libertà e la giustizia non conviene andare.