Liberare Mosul Il voto Usa incombe
Annunciata da settimane a suon di tweet e dichiarazioni roboanti, via alla campagna per la liberazione di Mosul. 30mila uomini contro i 10mila del Califfato per un'offensiva che poteva partire molto tempo fa. Ma si avvicina l'8 novembre e per Obama sarebbe stato imbarazzante arrivarci senza aver iniziato l'offensiva. Però i punti di domanda restano: che sarà dei cristiani nel guazzabuglio dell'Irak di oggi?
Annunciata da settimane a suon di immagini, tweet, dichiarazioni roboanti, ieri è cominciata la campagna militare per la liberazione di Mosul. E non si può certo dire che la coalizione eterogenea che sta avanzando da sud e da est verso la città nella quale al Baghdadi aveva proclamato la nascita del califfato abbia deciso di puntare sull'effetto sorpresa.
Sono ben 30 mila gli uomini che - tra esercito regolare iracheno, peshmerga curdi, milizie sciite, sunniti addestrati dai turchi, istruttori e commando occidentali più o meno nascosti - sono mobilitati per strappare all'Isis la seconda città dell'Iraq, quella caduta ai loro piedi senza neppure combattere nell'estate 2014. I rapporti di forza sono abbastanza chiari: i miliziani del sedicente Califfato rimasti a Mosul non sono più di 10 mila; e le esecuzioni sommarie di «traditori» mostrate negli ultimi due giorni dalla propaganda jihadista locale sembrano alimentare parecchi dubbi su quanti siano realmente disposti a immolarsi fino alla fine per la causa. Il problema vero però è un altro: le centinaia di migliaia di civili intrappolati in questa città che conta ancora tra il milione e il milione e mezzo di abitanti. L'Onu teme vittime e migliaia di nuovi profughi con l'avanzare del fronte dai villaggi esterni al centro abitato vero e proprio.
Lo squilibrio di forze in campo dice però anche un'altra cosa evidente: l'offensiva per la liberazione di Mosul sarebbe potuta scattare già parecchio tempo fa. Perché a rallentarla non è stata tanto la consistenza delle difese dell'Isis, quanto le divisioni sul futuro dell'Iraq tra quelli che dovrebbero esserne i liberatori. Ala fine la campagna militare è scattata adesso fondamentalmente perché si avvicina l'8 novembre, la data delle elezioni americane. E sarebbe stato imbarazzante per Obama arrivarci senza che la più importante delle operazioni sponsorizzate da Washington nella lotta contro le milizie jihadiste fosse nemmeno cominciata. Ben pochi, però, credono che Mosul possa davvero cadere nel giro di tre settimane.
L'inizio delle operazioni non vuole comunque dire che i punti di domanda siano davvero risolti. Perché il futuro dell'Iraq resta al momento un grande rompicapo nell'immenso caos che è il Medio Oriente di oggi. Intanto - per eredità della gestione Bush della guerre del Golfo - Washington a Baghdad sostiene un governo guidato dallo sciita al Abadi. Che - però - deve fare i conti con il pesante clima di divisioni settarie cresciuto tra le macerie dell'Iraq. Lo testimoniano gli attentati dei gruppi fondamentalisti sunniti che insanguinano da anni ormai Baghdad. Ma c'è anche la questione dei curdi, che a Erbil hanno dato vita alla loro regione autonoma e si comportano praticamente come un'entità indipendente. Il che è visto con sempre maggiore ostilità dai movimenti sciiti radicali, sostenuti da Teheran, che hanno proprie milizie e considerano troppo debole il governo di al Abadi.
Per non parlare delle tribù sunnite del nord che avevano capitolato all'Isis due anni fa proprio per il timore di soccombere a questi gruppi sciiti. A fianco delle quali ora - facendosi forza della presenza di circa 3 milioni di turcomanni - sta provando a entrare in partita anche la Turchia di Erdogan, che vorrebbe ritagliarsi un ruolo da garante per i sunniti iracheni. Per essere presente al tavolo sul futuro del Paese da qualche mese ha inviato un proprio contingente nell'area, ufficialmente con funzioni di addestramento, grazie a una sponda offerta dal presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno Massud Barzani (che ha bisogno della Turchia come sbocco alternativo a Baghdad per i propri pozzi petroliferi).
In questo immenso guazzabuglio si capisce perché Washington abbia dovuto con cura sincronizzare gli orologi. Per il momento la sua strategia sembra chiara: ad avanzare sono solo l'esercito regolare iracheno da sud e i peshmerga curdi da est. E questi ultimi - liberata la piana di Ninive e arrivati alle porte della città - dovrebbero fermarsi, per evitare problemi di natura etnico-religiosa. Secondo i piani scritti sulla carta a Mosul dovrebbero entrare solo le truppe regolari di Baghdad, rafforzando teoricamente l'autorità del governo di al Abadi. È probabile che i peshmerga si attengano a questa indicazione; ma la domanda vera è: lo stesso faranno anche le milizie sciite radicali e quelle sostenute da Ankara?
Di certo è quanto si augurano i cristiani iracheni, che l'Isis due anni fa ha cacciato via da Mosul e dalla Piana di Ninive e che adesso sperano in una liberazione vera della regione. Una svolta che permetta a tutti di far ritorno nelle proprie case e non sia invece l'alba di nuovi conflitti. Perché con così tanti interessi in gioco il rischio di finire schiacciati in un angolo in una spartizione di ciò che resta dell'Iraq è tutt'altro che remoto. E si capisce anche perché - qualche giorno fa - il patriarca caldeo Luis Raphael Sako abbia lanciato un estremo appello, proprio pensando alla battaglia che stava per iniziare: «La situazione presente esige da tutti gli abitanti di Mosul, come pure da tutti gli iracheni, l’assunzione di una precisa responsabilità storica, nazionale e morale nel costruire relazioni equilibrate sia all’interno del Paese sia fuori - ha scritto il presule -; evitando le accuse e le denigrazioni; mettendo fine alle dispute; andando oltre gli interessi propri e della propria fazione; e ponento l’interesse degli iracheni al di sopra e prima di qualunque altra cosa. Questo ci renderà capaci di tracciare il percorso concreto per una vera riconcilizione, per l’amore, la pace e la liberazione di tutti i territori occupati. Così, come iracheni, potremo ritrovare fiducia e speranza in una rapida soluzione al nostro rompicapo che dura ormai da troppo tempo, con il ristabilimento di una democrazia autentica, che rispetti ciascuno in una maniera pacifica e civile. È l’unica strada - conclude Sako - per una vera rinascita».