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ELEZIONI USA

L'FBI si rivolta contro la Clinton e riapre i giochi

Finora la candidata democratica Hillary Clinton era stata coperta indirettamente dall'FBI sullo scandalo delle email del Dipartimento di Stato. Il direttore della polizia federale, James Comey, indagando sull'ex marito di Huma Abedin (braccio destro della Clinton), ha però riaperto il caso.

Esteri 31_10_2016
Huma Abedin e Anthony Weiner

La campagna elettorale più assurda della storia degli Stati Uniti per eleggere il presidente più assurdo della storia degli Stati Uniti avanza a colpi di scena. Dopo il terzo confronto diretto con Donald J. Trump del 19 ottobre, i sondaggi danno per vincente Hillary Clinton. Ma venerdì 28 ottobre il direttore dell’FBI, James B. Comey, ha potenzialmente ribaltato il risultato annunciando, con una lettera al Congresso federale, indagini supplementari sulle famose email del famoso server privato di Hillary.

L’idea è che quelle email sottratte alle procedure di sicurezza dalla Clinton quand’era al vertice della diplomazia statunitense possano contenere verità inconfessabili, segreti di Stato diventati di Pulcinella, prove di maneggi da codice penale e magari, come qualcuno insinua, pure qualche altro altarino non esattamente edificante. La faccenda è vecchia, ma lo è anzitutto perché da mesi si trascina irrisolta nella totale acquiescenza del ministro della Giustizia, Loretta Lynch, da cui l’FBI dipende. Il direttore Comey ha dapprima sentenziato che il comportamento di Hillary viola la legge ma che la cosa non è rilevante. Poi ha proseguito balbettando come un ragazzino colto con le dita nella marmellata davanti alla Commissione Giustizia della Camera federale che gliene ha chiesto conto. Quindi ha immotivatamente patteggiato con alcuni dei sospettati principali immunità tanto assurde quanto in grado di ostacolare la giustizia.

Adesso però lo stesso Comey cambia strada. Perché? Perché in un’indagine su un caso non connesso a quello delle email della Clinton sono stati trovati materiali che potrebbero ricondurvi. Qual è il caso diverso su cui sta indagando l’FBI e perché punterebbe alla Clinton? È l’indagine a carico di Anthony D. Weiner che avrebbe inviato a una quindicenne del North Carolina messaggini osceni. Weiner è un ex deputato Democratico e il marito separato della più fedele collaboratrice di Hillary, Huma Abedin, avvezzo (per questo si è dimesso dal Congresso) a molestare donne con selfie dei propri genitali. Quel che l’FBI ha trovato su apparecchiature elettroniche sequestrate ai due coniugi ora in rotta parrebbe clintonianamente importante. Si parla di migliaia di messaggi. Cosa ci fanno migliaia di messaggi potenzialmente legati a delicatissime questioni di Stato sui cellulari e sui pc di un ex deputato (Weiner si è dimesso nel 2011) un po’ perverso e di sua moglie (si sono separati solo nell’agosto 2016), moglie che è pure il “capo” di quel “cerchio magico” di 13 donne e un solo uomo, gay, noto come “Hillaryland” che da decenni fa da guardia pretoriana alla Clinton?

Hillary considera la Abedin come una “seconda figlia”, altri le descrivono come sorelle (e qualcuno insinua “pure qualcosa di più”): rischierebbe l’incriminazione se avesse passato segreti di Stato al marito. Lo stesso farebbe Hillary se da Segretario di Stato quei segreti li avesse trattati, diciamo, con leggerezza.

Il voltafaccia del direttore Comey è insomma clamoroso. Tanto da cogliere di sorpresa il quindicinale conservatore National Review che mentre Comey mutava parere è andato in edicola con una copertina dedicata alla sua negligenza e un pezzo importantissimo di Andrew McCarthy sugli strani magheggi di una giustizia asservita al potere e gestita come il giardino di casa propria dallo stesso Comey (che però a questo punto fa la figura solo della pedina), dal ministro Lynch e persino dal presidente Barack Obama. Bastano del resto esempi come quello scoperto da The Wall Street Journal a capire il gioco: Terence R. “Terry” McAuliffe, governatore Democratico della Virginia e da anni grande amico del clan Clinton, ha versato 467.500 di dollari a favore della campagna elettorale di Jill McCabe che nel 2015 corse, perdendo, per il Senato della Virginia dopo avere annunciato l’ingresso in politica in quello stesso marzo dell’anno scorso in cui scoppiò lo scandalo delle email e il cui marito, Andrew McCabe, dirigeva l’ufficio dell’FBI di Washington quando, nel luglio 2015, iniziarono le indagini sulla Clinton, e nel febbraio 2016 è stato nominato vicedirettore del Bureau indagando appunto Hillary assieme al suo principale Comey.

Qualcosa dev’essersi dunque proprio inceppato. Forse uno scatto finale di orgoglio di Comey in rottura con il suo “capo”, il ministro Linch, apertamente schierata a favore della Clinton, decisa a insabbiare ogni indagine a suo carico (voleva che la nuova indagine restasse segreta, ma Comey ha scoperto le carte scrivendo al Congresso) e adesso furiosa nei confronti del direttore dell’FBI?

Da settimane, infatti, il clan Clinton e tutta la stampa mainstream danno a intendere agli americani e al mondo intero che il problema sia il machismo di Donald J. Trump. Ma a parte il fatto che lo scandalo vero del famoso e famigerato video del 2005 non è il “sessismo” del tycoon bensì l’adulterio di cui egli si vanta con gli amici (un fatto valutato zero dall’immoralità della stampa e del clan Clinton), e tenuto conto che se il noto endorsement con frasi da stalla della cantante Madonna fosse stato pronunciato a favore di Trump invece che della Clinton tutti avrebbero parlato della “sindrome di Stoccolma” in cui il magnate costringerebbe le donne del proprio entourage, si tratta solo di armi di distrazione di massa che forse ora l’FBI ha deciso di disinnescare.

La guerra dunque si è riaperta, e la corsa alla Casa Bianca pure. A meno che, però, l’ennesimo rovesciamento non raggeli di nuovo le speranze di chi spera nella sconfitta della Clinton. Se infatti la nuova indagine dell’FBI (a orologeria e a doppio taglio) dovesse scagionarla per tempo, Trump verrebbe definitivamente lasciato alle sue conigliette e la Clinton non avrebbe più freni. A quel punto, l’8 novembre i “No Clinton” potrebbero solo sperare di eleggere, assieme al presidente e al suo vice, un Congresso a fortissima maggioranza Repubblicana (magari anche battendo i referendum che vogliono legalizzare la marijuana e la Democratica Katherine “Kate” Brown che in Oregon vorrebbe farsi eleggere dal popolo primo governatore apertamente bisessuale della storia statunitense: lo è già, ma solo per l’automatismo istituzionale che l’ha imposta al suo predecessore, John Kitzhaber, travolto l’anno scorso dalla corruzione). Servono infatti i due terzi in entrambe le Camere per paralizzare la Casa Bianca annullando i veti che il presidente degli Stati Uniti volesse apporre all’attività legislativa del Congresso, quello stesso Congresso che ha il potere di avviare, istruire e concludere la procedura d’impeachment presidenziale per casi di corruzione, tradimento o altro delitto e crimine importante.