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MISSIONE

Lettera dal Centrafrica: "Dio Sa" se la guerra finisce

Dal 5 dicembre scorso, il Carmel di Bangui si è trasformato in un grande campo profughi. E tuttora svolge questa funzione, fra nuovi arrivi di orfani e violenze nelle province, speranze quotidiane e nuovi leader dai nomi profetici.

Esteri 14_02_2014
Carmel

Carissimi amici,
il nostro campo profughi ha ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero chi l’avrebbe immaginato che quelle porte, spalancate il mattino del 5 Dicembre dello scorso anno, sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si sarebbero così affezionati al Carmel!

Evidentemente, se i nostri ospiti sono ancora qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto non passa notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conto. Ma la cosa ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese ad essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti. Se in capitale una certa presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la situazione è molto più complessa. Tutta la zona nord-occidentale del paese è stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei Seleka (ribelli islamici, ndr) ora degli anti-balaka (vigilantes anti-islamici, ndr): saccheggi, uccisioni, case – tantissime case – e mercati bruciati. Il paese è entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime innocenti. La follia della guerra non ha risparmiato neppure le famiglie dei miei confratelli: a qualcuno è stato ucciso un membro della famiglia, a qualcun’altro è stata bruciata o saccheggiata la casa. Se i Seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente  all’origine della situazione in cui ci troviamo, gli anti-balaka hanno dimostrato una violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.

Gli anti-balaka, che non sono musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle parrocchie e nei conventi sparsi nel paese... salvandosi letteralmente la vita. Ma l’esodo di questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio dei generi alimentari di base – era infatti in mano ai musulmani. Il futuro del paese, anche quello economico, è quindi una vera incognita.

In questo quadro desolante c’è stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo presidente nella persona di Cathérine Samba Panza, ex-sindaco di Bangui. Se pace sarà, quindi, sarà donna. Tale elezione è stata salutata positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba Panza ha poi una cosa alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta: il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare alla pace. Del resto, nel nostro frigo, dorme uno spumante che non abbiamo ancora avuto il coraggio di stappare da due mesi a questa parte.

La nuova presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è tutto un programma: Nzapayeke, che significa ‘Dio c’è’. Un ottimo tandem con il vescovo di Bangui, il cui cognome, Nzapalainga, significa ‘Dio sa’. Quindi: Dio c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.

Ve lo ricordate padre Anastasio? Il suo soggiorno è stato breve, ma i nostri profughi lo hanno subito preso in simpatia. Tutti i nostri bambini hanno imparato a dire ‘ciao’… “anche senza dargli una caramella” (o, almeno, così sostiene padre Anastasio, noto in tutto il Centrafrica come père Ciao). Comunque se padre Anastasio avesse presentato la sua candidatura come presidente del Centrafrica avrebbe avuto qualche chance di vittoria. Qui al Carmel avrebbe stravinto. Ma purtroppo, dopo aver fotografato tutto il fotografabile, padre Anastasio è stato costretto a ripartire, confessandomi che non gli era mai stato così difficile lasciare il paese.

Per fortuna, al suo posto, è arrivato subito fra Nicola, un dono del padre provinciale per offrirci un po’ di auito e di sostegno. Fra Nicola, che proprio in Centrafrica scoprì, ormai più di vent’anni fa, la sua vocazione, ha lasciato il silenzioso Eremo di Varazze per questo convento trasformato in un chiassoso campo profughi. Mastica ancora un po’ di sango (la lingua del Centrafrica) dal sapore lucano e quindi il suo inserimento è stato veloce. Ha portato con sé una bella statua della Regina della Pace che è andata a ruba tra i miei confratelli per un giro di novene. Fra Nicola, quando non s’infiamma parlando della Madonna, sa fare veramente di tutto e appartiene a quella specie di frati dei più apprezzati e contesi nei conventi. Il suo soggiorno sarà breve, ma ci ha comunque dato una grossa mano.

Nel frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. L’organismo incaricato di costruire la scuola avrebbe voluto utilizzare il nostro campo da calcio. Ma i miei confratelli, che sono stati alquanto generosi nell’offrire la chiesa per il sonno dei più piccini, molto sportivamente non hanno voluto sentir parlare di rinunciare al campo di calcio conventuale per farne una scuola. E quindi la scuola è sorta nel giardino delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione, seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi come Bwa Federico, baba ti adéplacés kwe ti Carmel (padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel). In questi giorni, la gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal nostro campo profughi, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece, da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario. Se avete dei bambini, diteglielo prima che sia troppo tardi.

Purtroppo, se i bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Il nostro bestiame, quindi, fa gola a tutti, soprattutto ai ladri. Ma noi teniamo duro. Se mai ne usciremo da questo diluvio, le 22 mucche e le 37 anitre del Carmel saranno una sorta di arca di Noè, grazie al quale sarà ripopolato il Centrafrica. Quanto alla prosecuzione della specie umana, i centrafricani non hanno bisogno di essere incoraggiati.

Quanto a bambini, tuttavia, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, un bambino di circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a nord di Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una granata e la sua casa è stata incendiata; e lui, accompagnato da dei militari, è arrivato fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi dell’aeroporto – che ospita qualcosa come 100.000 rifugiati – un taxi-moto lo ho lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa della suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato ad usi e costumi del convento, forse un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice di poter dormire in un luogo sicuro. A noi, tutta questa simpatica e incredibile storia, è sembrata la versione africana di ‘Marcellino, manioca e vino’…

Abbiamo anche ricevuto la visita delle suore di Madre Teresa di Calcutta. Senza troppo rumore e zero burocrazia, questi angeli vestiti di sari sono riusciti a fare qualcosa che nessuna Ong era fin’ora riuscita a fare. Per ben due volte hanno offerto un pasto caldo per tutti – proprio tutti – i bambini: una zuppa di riso dolce. E, prima di ripartire, hanno preso con sé Pierre, un vecchio congolese ammalato, rimasto abbandonato nel fuggi fuggi della guerra.

C’è poi, qui al Carmel, un Corpus Domini quotidiano. Ogni mattina, al termine della celebrazione eucaristica nella nostra cattedrale di palme e cielo, riportiamo quanto resta dell’Eucaristia nel tabernacolo all’interno del Convento. Sembrano, ogni volta, le dodici ceste avanzate dopo la moltiplicazione dei pani. Il Santissimo, per nulla infastidito, attraversa il nostro campo di profughi in un caleidoscopio di colori, odori, fumi e profumi, fango e polvere. E, mentre compio questa surreale processione, ringrazio in cuor mio questa gente, che forse non sa che sta obbligando me e i miei confratelli a vivere un po’ di più il Vangelo.