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IL CASO

L’emergenza carceri? Inizia dai processi e dalle pene

A rendere drammatica l’emergenza carceri c’è innanzitutto la durata dei processi, che finiscono per mantenere sulla graticola migliaia di rinviati a giudizio. Poi la difficoltà di sottoporre a pene alternative i detenuti. E qui si rintraccia la vera essenza del problema: la mancata attuazione dell’articolo 27 della Costituzione.

Politica 21_04_2016
Emergenza carceri

Nell’ottobre 2013, l’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano utilizzò per la prima volta lo strumento del Messaggio alle Camere per denunciare la grave situazione carceraria italiana, denunciata perfino dalle istituzioni internazionali.  L’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (4 novembre 1950), sotto la rubrica “protezione della tortura”, pone il divieto di pene disumane, anche di quelle imputabili al degrado delle condizioni di vita nelle carceri. 

Una settimana prima aveva visitato il carcere di Poggioreale a Napoli e puntato il dito sul sovraffollamento degli istituti di pena e sulle pessime condizioni di detenzione, non rispettose della dignità umana. Nel coro unanime di consensi alle parole dell’ex Capo dello Stato, l’unica voce di dissenso fu quella del Movimento Cinque Stelle, che accusò Napolitano di volere un’amnistia pro-Berlusconi. A distanza di due anni e mezzo, la stringente necessità di cambiare la condizione delle carceri viene rilanciata agli Stati generali dell’esecuzione penale, dove si fa ricorso addirittura ad un videomessaggio di Checco Zalone per risvegliare le coscienze degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica sull’emergenza detenuti. 

Il governo Renzi, che pure ha dimostrato dinamismo riformatore in molti ambiti, non pare aver preso ancora in mano con sufficiente determinazione il dossier della politica penale e della politica carceraria. Non a caso, a quell’appuntamento di cartello, fortemente voluto dal ministro della Giustizia, il premier ha brillato per assenza, forse per lasciare interamente la scena ad Andrea Orlando, oppure, più semplicemente, per evitare di assumere in prima persona impegni che non è certo di poter mantenere.

Le carceri, infatti, scoppiano e il rischio che le istituzioni possano scivolare nell’indifferenza, accettando supinamente tale realtà di degrado civile e sofferenza umana, è altissimo. E perché è così difficile costruire nuove carceri in grado di assorbire l’esorbitante numero di detenuti? Perché spesso chi le costruisce finisce a sua volta in galera perché commette reati. 

Lo scandalo delle “carceri d’oro” vive ancora nella memoria di moltissimi italiani ed è solo l’episodio più eclatante in questo senso, non certo l’unico. Ad aggravare e a rendere drammatica l’emergenza carceri sono poi altri elementi. In primo luogo la durata, tutt’altro che ragionevole, dei processi, che finiscono per mantenere sulla graticola, in modo smisuratamente prolungato, migliaia di rinviati a giudizio, magari sottoposti anche a custodia cautelare. In secondo luogo la difficoltà di sottoporre a pene alternative i detenuti. Solo in minima parte essi vengono sottratti al carcere e indirizzati verso lavori socialmente utili e le statistiche dicono che più facilmente i detenuti costretti a scontare interamente la pena in cella delinquono nuovamente e si dimostrano recidivi.

E qui si rintraccia la vera essenza del problema: la mancata attuazione dell’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui attribuisce al carcere una funzione rieducativa del condannato. Il detenuto, dopo aver scontato il periodo di pena stabilito con sentenza definitiva, deve uscire dal carcere migliore di come vi è entrato. Può farlo se le condizioni all’interno delle carceri sono accettabili, sul piano degli spazi, dell’igiene, della qualità della vita. Sottoporre i detenuti a trattamenti degradanti equivale a vanificare quel principio costituzionale, che subisce, peraltro, una violazione ancora più palese attraverso i processi mediatici e l’invadenza dei media.

A volte i mezzi d’informazione, accanendosi su vicende giudiziarie del passato, o sulle pene scontate da personaggi noti e meno noti, hanno dimostrato di non rispettare quel precetto costituzionale. Se il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato e se la società è generosa nell’offrire un’altra chance e un’occasione di riscatto a chi ha pagato con la galera per i suoi errori, perché i mezzi d’informazione devono sottoporre alla gogna mediatica gli ex detenuti, richiamandoli perennemente all’attenzione dell’opinione pubblica come ex detenuti e non come cittadini normali? Perché i media non si sentono obbligati al rispetto della funzione rieducativa della pena, intesa come spegnimento dei riflettori della cronaca rispetto a vicende passate e non più di interesse pubblico? 

Se un politico finisce in cella per corruzione, sconta la sua pena in carcere e, quando riacquista libertà, si ritira a vita privata e chiede che si spengano le luci del giornalismo sulla sua vita, perché non accontentarlo? Perché additarlo perennemente come colpevole di quel reato? Viceversa, se torna a fare politica e a ricoprire incarichi pubblici, entro certi limiti il suo passato di condannato va richiamato alla memoria collettiva, affinché la gente sappia tutto di lui e decida in assoluta libertà se dargli ancora fiducia. É il tema del cosiddetto diritto all’oblio, concetto elastico, che tuttavia si lega in maniera indissolubile a quello della funzione rieducativa della pena e che, non a caso, è stato inserito per la prima volta in una carta deontologica dei giornalisti, la Carta di Milano del 2013.