Legge 40, il paradosso dei diritti vietati
Dietro la nuova iniziativa del Tribunale di Milano, che chiede alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, sta il concetto di auto-determinazione che, se applicato, porterebbe a situazioni assurde.
Il divieto di fecondazione eterologa potrebbe essere incostituzionale. E’ l’ennesimo dubbio sollevato, questa volta dal Tribunale di Milano, sulla Legge 40 che regola la fecondazione assistita. Il Tribunale ha perciò sospeso un procedimento in corso per rivolgere alla Corte Costituzionale un quesito riguardante proprio il divieto all'utilizzo di gameti provenienti da un “donatore” esterno alla coppia.
Il dubbio dei giudici milanesi verte proprio sull’incompatibilità di queste disposizioni con i nostri principi costituzionali di non discriminazione tra coppie sterili e fertili, privando le prime della possibilità di autodeterminare e realizzare il proprio progetto familiare. Al Giudice milanese si era rivolta una coppia in cui il marito è sterile (soffre di azoospermia completa), facendo proprio ricorso contro la Legge 40 che impedisce loro di accedere alla fecondazione assistita eterologa; il Tribunale ha alzato le mani e deciso di chiedere alla Corte un giudizio interpretativo, attenendosi anche alle indicazioni della Corte Europea.
Si tratta solo dell'ultimo caso di attacco alla Legge 40 – già peraltro sottoposta a referendum popolare – che fa sempre più percepire come i limiti imposti dalla normativa italiana vengano intesi come restrittivi e ingiusti, specie se paragonati a quelli di altri Stati dalla legislazione più permissiva.
Alla base delle doglianze della coppia, tra altre motivazioni, c'è l'impossibilità economica di affrontare le spese per eseguire la fecondazione eterologa fuori dal confine italiano, come molte coppie scelgono invece di fare dando vita a quello che è stato definito come il fenomeno della “mobilità bio-medica”.
Lo stesso Tribunale di Milano aveva già affrontato la questione – sempre rivolgendosi alla Consulta - all'epoca in cui Strasburgo condannò l'Austria proprio in quanto, si disse, la legislazione nazionale in tema discriminava alcune coppie non permettendo loro l'eterologa, costringendo i genitori in potenza a varcare il confine austriaco in cerca di un bebè. Poi, a fine 2011, la Gran Camera (organo di appello della Corte Europea) ci ripensò, stabilendo che la materia in questione rientrava nella discrezionalità piena del legislatore nazionale e, quindi, non spettava a Strasburgo dare indicazioni vincolanti o condannare le scelte normative dei singoli Stati membri.
Ma, nonostante i Giudici comunitari abbiano escluso che il divieto dell'eterologa leda diritti umani, la questione di incostituzionalità circa l'art. 4 della nostra Legge 40 è stata ugualmente avanzata dal Tribunale milanese presso la Corte Costituzionale, sollevando problematiche di discriminazione. E' interessante – in attesa del responso della Consulta – ragionare sulla strada percorsa dal Giudice milanese nel dichiarare, quanto meno a un primo vaglio, non infondata la richiesta degli avvocati della coppia, a tal punto da ritenere opportuno sospendere il procedimento in corso per rivolgere la questione alla Corte Costituzionale.
L’articolo più solitamente invocato in questi casi è il numero 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute del cittadino e che, si vuol sostenere, col divieto di fecondazione eterologa viene leso. Ora, nell’ipotesi di una coppia che, per malattie congenite o meno, non può generare figli se non ricorrendo all’utilizzo di gameti maschili/femminili esterni, chiaramente non possiamo intendere la fecondazione eterologa come cura.
La patologia, cioè, che provoca la sterilità o l’infertilità non viene eliminata favorendo la nascita di un figlio col ricorso a un donatore di gameti; il termine della procedura, coronata con la nascita di un bimbo, non comporta il superamento di una problematica fisico-genetica che permane in capo a uno – o a entrambi – i genitori, ripresentandosi in futuro.
Ma – essendo palese ciò – dobbiamo considerare che da tempo la giurisprudenza ha allargato, in alcuni casi giustamente, il concetto di tutela della salute dal piano fisico a quello psicologico; ecco che rientra nel diritto a una vita sana anche la serenità, l’assenza di costrizioni mentali, di abusi e vessazioni psicologiche. Proprio su questo versante pare incardinarsi la richiesta della coppia milanese che, si intuisce, vuole veder rispettata la propria serenità familiare senza subire il trauma di un viaggio all’estero in cerca di un figlio, senza vivere in maniera ancora più amplificata il dramma della propria sterilità, vedendosi negare dalla legge italiana la possibilità di esprimere la propria genitorialità.
Dobbiamo credere, quindi, che la nascita di un figlio possa curare uno stato di depressione o, quantomeno, prevenirlo? La vita dell’altro diventa necessaria per la mia salute psicologica? Esiste, in sostanza, un diritto ad “avere” l’altro? Il ragionamento, volendo giocare all’assurdo, può portare a dei paradossi giuridici, oltre che logici, secondo i quali il divorzio lederebbe il diritto di un coniuge che non intende separarsi ad “avere l’altro” per sempre. Il divorzio, poi, – o meglio, le condizioni a cui viene delle volte concesso – non viola forse il diritto dei figli ad “avere” entrambi i genitori? Perché, quindi, tutelare il diritto dei figli a vivere coi genitori e non il diritto di una coppia a diventare genitori di figli?
Inizia a risuonare il refrain del “diritto ad avere un figlio”. A sostegno di tutte queste teorie viene, di solito, proposto il concetto di diritto all’autodeterminazione, che, detto per inciso, nella nostra Costituzione non si trova. Esiste, in virtù dell’articolo 3, il riconoscimento della libertà del cittadino e la promozione della sua realizzazione nel sociale e, quindi, anche nell’ambito familiare, ma non è compresa l’auto-determinazione pura. Il singolo, nella Costituzione, non è mai solo un individuo, la libertà non è mai assoluta (nel senso di ab-soluta, senza legami e limiti) e la determinazione delle scelte non è pensabile come totalmente auto-referenziale.
La scelta di una madre o di un padre non dovrebbe investire la vita di un’altra persona, perché – tornando al concetto di prima – non esiste un diritto ad “avere” l’altro. Altrimenti e, di nuovo, paradossalmente si potrebbe riconoscere anche il diritto ad auto-determinare il numero dei componenti della propria famiglia e, in presenza di una ecografia di una gravidanza gemellare, scegliere di abortire solo uno dei due bambini, per non essere in “troppi”.
Oppure scegliere di abortire solo i figli maschi perché, per esempio, si vuole auto-determinare la propria famiglia come composta solo da figlie femmine, o viceversa.
Ma appare evidente che così supereremmo anche tutti gli argini della Legge 194. Qualcuno potrebbe accusare questi ragionamenti di essere iperbolici; ebbene così in effetti è. Però, a volte, i paradossi hanno il pregio, pur nella loro distanza dalla realtà, di evidenziare le falle di alcuni ragionamenti interpretativi della legge. E, a chi sostiene che, in questo specifico caso, si sta dopotutto parlando del desiderio di generare una vita e di accoglierla - non già di violarla o sopprimerla - bisogna rispondere anche che occorre fare molta attenzione perché, se si accoglie il concetto di auto-determinazione, bisogna essere pronti a riconoscerlo nella sua totalità, fino al raggiungimento di limiti imprevedibili.
In attesa, quindi, della risposta della Corte Costituzionale, possiamo quantomeno chiederci quali risvolti ulteriori solleva il dubbio del Giudice milanese e a quali scenari aprirebbe un ipotetico accoglimento dell’istanza di incostituzionalità da parte della Consulta. Fino a dove si può riconoscere un diritto? Fino al diritto a cosa? Fino al diritto a chi?