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C8

Le strane manovre attorno allo Ior

Il consiglio direttivo dell'Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) accusa pesantemente il direttore René Brulhart di nascondere la realtà dell'istituto. E' l'ennesimo tentativo di bloccare il processo di trasparenza dello Ior. 

Editoriali 19_02_2014
René Brulhart

Quando ieri mattina si sono riuniti a Santa Marta per ascoltare la relazione della Pontificia commissione referente sullo Ior, gli otto membri del C8 avevano già letto quanto il Consiglio direttivo dell’Autorità di Informazione finanziaria (Aif) – l’organismo antiriciclaggio creato da Benedetto XVI nel 2010 – aveva scritto al segretario di Stato, mons. Parolin. Una lettera dai toni molto duri, quella divulgata ieri dal Messaggero, in cui l’imputato era solo uno: il direttore generale dell’Aif, René Brulhart. I membri del Consiglio (composto da giuristi di fama), hanno denunciato “il perdurare della situazione di opacità informativa” che si è venuta a creare proprio “a partire dalla nomina del direttore Brulhart”. Uno stallo che ha fatto venir meno “le condizioni per poter svolgere le funzioni e i compiti assegnati dalla Legge e dallo Statuto”.

Una situazione definita “insostenibile e preoccupante”, al punto che “l’Aif è posta nelle condizioni di non svolgere il proprio ruolo”. La situazione è precipitata dopo le dimissioni del presidente dell’Autorità, il cardinale Attilio Nicora, avvenute qualche settimana fa. Nessuna ragione di salute dietro l’addio, solo un pessimo rapporto con il suo direttore generale. Secondo il j’accuse messo nero su bianco nella lettera inviata a Parolin, “Nicora aveva richiesto una dettagliata relazione su tutte le operazioni sospette rilevate, ma si è visto recapitare solo una paginetta in inglese di poche righe del tutto insoddisfacenti”.

I toni della lettera ricordano quelli del celebre comunicato con cui il 24 maggio 2012 la Segreteria di stato (allora guidata dal cardinale Tarcisio Bertone) rimuoveva in malo modo Ettore Gotti Tedeschi – già apprezzato collaboratore di Benedetto XVI nella stesura dell’enciclica Caritas in Veritate – dalla presidenza dello Ior. Una dopo l’altra, erano elencate ben nove accuse che avrebbero dovuto giustificare l’allontanamento. Il banchiere finì così non solo nel tritacarne mediatico per la defenestrazione, ma anche in quello giudiziario perché accusato di essere coinvolto nel trasferimento di 23 milioni di euro da un conto aperto presso il Credito artigiano a uno di Jp Morgan. Passaggio che originariamente i magistrati avevano contestato a Gotti Tedeschi e a Cipriani (all'epoca direttore generale dello Ior), prima di chiederne l'archiviazione 8solo per Gotti) in quanto "è un dato oggettivo che l'attività di Gotti Tedeschi è stata essenzialmente orientata a dar vita a una nuova policy dell'istituto nel quadro dell'adozione di un insieme di misure miranti ad allineare lo Stato della Città del Vaticano, sul versante del contrasto al riciclaggio, ai migliori standard internazionali". Insomma, Gotti Tedeschi lavorava per rendere trasparente lo Ior su mandato di Benedetto XVI, ma ostacoli sempre più insormontabili gli si palesavano davanti, al punto che "ha dimostrato di non avere alcuna delega operativa", si legge ancora nel provvedimento che lo scagiona da ogni responsabilità.

Dalla defenestrazione di Gotti Tedeschi sarebbero passati nove mesi prima della nomina del nuovo presidente: solo negli ultimi giorni di pontificato e a rinuncia già annunciata, Benedetto XVI chiamò a Roma il tedesco Ernst von Freyberg. Una mossa (suggerita dalla Segreteria di stato) che fu al centro di aspri confronti durante le congregazioni cardinalizie del pre-Conclave. Stando alle cronache di quei giorni, a finire nel mirino di molti prelati (particolarmente accalorato sarebbe stato il brasiliano Joao Braz de Aviz, prefetto per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica) fu l’operato della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior, allora guidata da Bertone. Commissione che, non a caso, solo un mese fa è stata rivoluzionata da Francesco: quattro membri su cinque sono stati rimossi, benché il mandato affidato da Benedetto XVI nel 2013 fosse quinquennale. Una bocciatura senza possibilità d’appello, chiaro sintomo che all’ombra del torrione di Niccolò V si fatica a svoltare e a rompere con un passato non sempre trasparente.

La commissione istituita a luglio da Bergoglio e affidata al salesiano Raffaele Farina (ottantenne, bibliotecario emerito e figura lontana dagli affari economici della Santa Sede) è al lavoro dalla scorsa estate e sta vagliando una serie di proposte sul futuro dello Ior. La decisione finale, naturalmente, spetterà al Papa. Che aspetta, osserva e ascolta le relazioni del suo delegato personale nell’organismo, il fedele segretario mons. Alfred Xuereb. Nessuno sa quale sarà il verdetto finale, neppure il presidente von Freyberg, che intervistato domenica dalla Nación, diceva: “Siamo in un momento cruciale, in attesa della decisione del Papa. Non so che cosa accadrà, non posso fare speculazioni sulla decisione del Santo Padre”. Infatti, nonostante l’operazione trasparenza messa in atto a partire dai mesi scorsi – con consulenti al lavoro giorno e notte in vista del pronunciamento di Moneyval, l’organismo istituto dal Consiglio d’Europa che si occupa di antiriciclaggio – la situazione rimane complicata. A dicembre, Moneyval esprimeva sì un parere parzialmente positivo, ma il giudizio non comportava un mutamento del rating formulato nel Rapporto di mutua valutazione. Qualcosa, però, stava cambiando, soprattutto in virtù ai tre successivi motu proprio di Francesco che a partire dalla scorsa estate avevano rafforzato l’Aif del cardinale Nicora (in passato protagonista di screzi assai forti con Bertone).

Ma a gennaio la situazione precipitava nuovamente, con le polemiche dimissioni di Nicora e la lettera del Consiglio direttivo inviata a Parolin. Mettere mano all’istituto per le opere di religione non è facile, e lo stesso Francesco se ne è accorto lo scorso aprile. Appena un mese dopo l’elezione, durante un’omelia pronunciata a braccio a Santa Marta diceva che “tutto è necessario, gli uffici sono necessari eh, va bè! Ma sono necessari fino ad un certo punto: come aiuto a questa storia d'amore. Ma quando l'organizzazione prende il primo posto, l'amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ong. E questa non è la strada”. Aggiungeva poi: “Vedo che qui ci sono quelli dello Ior, scusatemi”. Una frase che costrinse il sostituto della Segreteria di Stato, mons. Angelo Becciu, a intervenire per chiarire la portata delle parole papali, smentendo che Francesco volesse con quell’omelia preannunciare la chiusura della banca vaticana. Eppure, sono molti, anche nel collegio cardinalizio, che non disdegnerebbero affatto la serrata del torrione quattrocentesco che affianca il Palazzo apostolico. Il cardinale Schönborn aveva parlato dell’ipotesi di trasformarlo in una banca etica, mentre il porporato nigeriano Onaiyekan si schierava per la chiusura. Tutte proposte aperte, con la soluzione che non appare però vicina. L’unica cosa certa è che, ha garantito il cardinale Oscar Maradiaga (coordinatore della consulta cardinalizia e vicinissimo a Francesco), “lo Ior non aprirà filiali nelle vie di Roma”.