Le saudite possono votare. Bene, ma certo non basta
Accaddrà nel 2015 e solo nelle amministrative, le uniche elezioni ammesse nel Paese. Sulle altre libertà fondamentali, però, è buio fitto.
Alle donne saudite è stato riconosciuto, questa settimana, il diritto di voto, attivo e passivo. Potranno cioè eleggere ed essere elette nelle liste per le amministrative. Sono infatti queste le uniche consultazioni in vigore in Arabia Saudita, una monarchia assoluta che concentra il potere politico nella figura del monarca e del consiglio consultivo della Shura, nei cui seggi, dal 2015, potranno dunque far parte appunto anche le donne.
Solo dal 2015 e non prima poiché la "rivoluzione culturale" del suffragio femminile deve attendere: un turno di elezioni amministrative è sì alle porte, ma le donne saudite potranno solo sfilare nei seggi se accompagnate da mariti o comunque congiunti maschi. La prossima volta, cioè tra quattro anni, voteranno. Comunque sia, il primo timido passo verso l’uguaglianza dei sessi è stato compiuto anche nel Paese che più di ogni altro basa le proprie leggi su un’interpretazione estremamente rigida dei precetti dell’islam. È un effetto della cosiddetta "primavera araba" o si tratta dalla presa di coscienza da parte del sovrano saudita, Abdullah bin Abdul Aziz, del fatto che le donne, per esempio grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie di comunicazione, rappresentano oramai una parte consistente dell’opinione pubblica del Paese?
«È assurdo imporre a un individuo o a una società diritti che sono alieni alla sua cultura e al suo sentire sociale», aveva detto il sovrano saudita nel suo più recente intervento alle Nazioni Unite difendendo la posizione tenuta dall’Arabia sulla Dichiarazione universale dei diritti umani. Forse ha dovuto ricredersi: in fondo l’interpretazione, letterale e restrittiva dei precetti della legge islamica, è una tradizione piuttosto recente anche per il suo Paese.
La rivoluzione giuridica che ha introdotto la più recente interpretazione della shari’a si è compiuta infatti solo nel secolo XVIII dell’era cristiana, cioè dopo dodici secoli di storia islamica durante i quali aveva invece prevalso una lettura moderata delle leggi, seguendo la linea dettata dal filosofo arabo Averroè. La prima svolta, nel senso di un’interpretazione puramente letterale delle norme, fu introdotta dalla scuola naql’ che mise in soffitta le idee del grande filosofo e matematico arabo, diffondendo l’idea che «non la ragione, ma solo l’intuizione era in grado di affermare la Verità come voleva Dio». Di fatto da allora la legge islamica si basa su una stretta alleanza tra potere politico e giudici: la stessa siglata nel 1744 tra il sovrano Dir’iyya Muhammad Ibn Sa’ud e il giudice Muhammad Ibn Abd al-Wahhab, dal cui none proviene del resto il termine wahhabismo che connota il tipo di islam rigorista oggi regnante in Arabia.
Comunque sia, malgrado le strette relazioni tra Arabia e Stati Uniti, e la ratifica da parte del regno saudita di alcune convenzioni internazionali in tema di diritti umani promulgate sotto l’egida delle Nazioni Unite, come la Convenzione internazionale contro la tortura o la nascita in Arabia di alcuni influenti organizzazioni per la difesa dei diritti umani, soprattutto delle donne, il cammino verso la parità tra i sessi sembra ancora, nonostante la recente inaspettata apertura sul suffragio femminile, lungo e difficile.
Infatti, se pure alle donne è stato concesso il voto, le saudite non dispongono di certe libertà minime come per esempio quella di guidare la macchina, come bene ha ricordato al mondo la protesta delle sulle quattro ruote che alcune coraggiose hanno inscenato lo scorso giugno per le strade del Paese.
Tra i divieti più assurdi imposti alle donne saudite vi è del resto anche la fatwa lanciata qualche anno fa che pretende, addirittura, di proibire alle madri di allattare i figli maschi per impedire la promiscuità tra i due sessi: una follia che ci si augura non abbia trovato mai riscontro pratico. Mentre purtroppo è abbastanza comune che le donne vengano condotte in prigione dalla polizia religiosa Mutaween per il solo essersi trovate vicino a un uomo in un caffè, senza neppure parlargli. Il caso più noto è quello di una donna siriana di nazionalità statunitense che, in Arabia Saudita per lavoro, non aveva preso adeguate precauzioni in un locale Starbucks della capitale Riyadh. La signora ha raccontato al quotidiano Times, due anni fa, di essere stata costretta a “confessare” il proprio delitto, dopo un giorno di prigione e un trattamento diciamo poco gentile.
La polizia religiosa saudita conta circa 10mila tra funzionari e a genti, e 500 uffici sparsi in tutto il Paese. Controlla persino se una donna accetti un passaggio in macchina da un uomo che non è suo parente e il reato può costare fino a sei anni di carcere, ovviamente per alla donna. Molto peggio è del resto finita per Ahmad al Bluwi, morto in prigione nel 2007 solo per aver invitato una donna a salire nella propria vettura davanti agli occhi alla famiglia di lei.
Nel rapporto sulle "Gravi violazioni umane nei confronti delle donne saudite" Amnesty International rivela che nei processi vengono ignorati i più basilari standard di equità anche per colpa dell’estrema segretezza che circonda tutte le fasi del dibattimento. Negli ultimi dieci anni, a conclusione di questi giudizi segretissimi, 28 donne saudite sono state condannate alla pena di morte: il reato più ricorrente è la presunta uccisione del marito.
Il diritto di voto è insomma una bella novità, ma certo non il primo di cui hanno bisogno subito le donne saudite.