Le quattro lezioni delle elezioni amministrative
Il voto alle amministrative è rivelatore delle tendenze politiche che porteranno alle elezioni generali, nel 2023 o anche prima. Poca affluenza, fluidità estrema delle candidature, fragilità del governo Draghi e assenza di leadership sono messaggi da tenere presente. Centrodestra in netto vantaggio. Se solo fosse unito.
Le elezioni amministrative di domenica rilanciano il centrodestra, che conquista al primo turno Palermo, Genova e L’Aquila, rispettivamente con Roberto Lagalla, Marco Bucci e Pierluigi Biondi, ma fa fatica in città come Verona o Catanzaro, dove si presentava diviso e con più candidati sindaci. La coalizione di Berlusconi, Meloni e Salvini si conferma dunque maggioranza nel Paese, ma non sfonda a causa delle rivalità interne.
Il caso Verona è emblematico. L’ex calciatore della Roma, Damiano Tommasi, alla testa della coalizione di centrosinistra, supera il 40% e prende più voti del sindaco uscente, Federico Sboarina (Fratelli d’Italia), che non ha potuto contare sui voti centristi, andati a Flavio Tosi, ex sindaco leghista. Ora che faranno gli elettori di Tosi al secondo turno? Buon senso vorrebbe che sostenessero l’alleato meloniano, ma voci di corridoio già pronosticano un travaso di voti verso Tommasi.
Anche a Catanzaro Fratelli d’Italia ha presentato un suo candidato alla carica di sindaco, che ha raccolto il 7%, percentuale esigua, che però è servita a non far vincere al primo turno il candidato di Forza Italia e Lega. In altre città come Padova, Lodi e Taranto il centrosinistra si è riconfermato maggioranza, con il sindaco uscente Sergio Giordani, mentre a Parma e Piacenza è in netto vantaggio sul centrodestra. Invece Alessandria, Pistoia, Gorizia, Belluno sembrano andare verso il centrodestra, anche se ci sarà bisogno del ballottaggio.
Situazione fluida, dunque, ma con almeno quattro indicazioni chiare e inequivocabili. Anzitutto il calo dei votanti, con poco più del 54% degli aventi diritto che si è recato alle urne. Neppure il legame con il territorio stimola la partecipazione dei cittadini, che è stata scarsa un po ovunque. Urge una riflessione sulle modalità di selezione della classe dirigente e sulla rappresentatività di elezioni che si decidono al secondo turno quando, presumibilmente, l’affluenza ai seggi sarà ancora più bassa.
In secondo luogo si conferma la precarietà delle coalizioni. Il campo largo auspicato da Letta, cioè la larga coalizione con il Movimento Cinque Stelle e la sinistra estrema, funziona solo nei tradizionali feudi post-comunisti, ma vacilla altrove. Sul fronte opposto, la competizione tra Fratelli d’Italia e Lega si accentua, ma va a danno dell’intera coalizione, che nei ballottaggi rischia di perdere città come Verona e Catanzaro proprio a causa di queste divisioni. Il successo, sia pur limitato ad alcune città, di Azione e Noi con l’Italia, forze centriste alla finestra in attesa di nuovi equilibri, lascia pensare che gli schieramenti sono ancora tutti da definire.
Il terzo segnale che arriva dalle urne riguarda il governo. Sarà difficile per Draghi portare avanti il programma concordato con i partiti che sostengono il suo esecutivo e che, in vista del voto politico e regionale, sono sempre più divisi. L’imminenza dell’appuntamento con le urne, nella primavera prossima, sia per le politiche che per le regionali in alcuni territori importanti come quello lombardo, porterà le singole forze politiche ad enfatizzare le differenze anziché le convergenze. Sarà dunque difficile gestire la manovra finanziaria d’autunno, sulla quale il premier avrà bisogno di una convergenza molto ampia, visto che, presumibilmente, bisognerà stringere i cordoni della borsa e fronteggiare il calo energetico e l’inflazione, ormai fuori controllo. I partiti non vorranno mettere la faccia su misure impopolari perché ne pagherebbero le conseguenze in termini di voti. Draghi rischia di ritrovarsi isolato e senza adeguato sostegno parlamentare.
Infine, l’assenza di leader sul proscenio della politica italiana. Matteo Salvini viene messo in discussione perfino nella Lega, della quale sembrava essere guida senza rivali. La Meloni, che pure viene data in forte ascesa, non sfonda e difficilmente potrà diventare leader di governo senza prima diventare leader del centrodestra unito. Nel centrosinistra Letta incassa la vittoria nei referendum, visto che si era sempre detto contrario ai cinque quesiti sulla giustizia, ma deve fronteggiare la crescente concorrenza di Azione e Italia Viva, che potrebbero schiacciare i dem sulla sinistra. Fra i 5 Stelle la resa dei conti tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio è solo agli inizi e si consumerà dopo l’estate quando bisognerà comporre le liste per conquistare quei pochi seggi che i grillini riusciranno a confermare nella prossima legislatura. Nessun partito al momento esprime una leadership forte e in grado di prevalere su tutte le altre. Se nel centrodestra si arrivasse a un chiarimento definitivo sulla leadership, la vittoria potrebbe essere a portata di mano. Ma nulla, al momento, lascia presagire che ciò possa accadere in tempi brevi. Ecco perché la possibile svolta del sistema elettorale in chiave proporzionale consentirebbe a tutti i partiti di raccogliere seggi in proporzione ai voti, senza impegnarsi in rigide e rissose coalizioni, nell’attesa che un leader possa imporsi sulla scena e ottenere l’investitura per Palazzo Chigi. Per proseguire, con ogni probabilità, il percorso del governo Draghi, come si augura l’Unione europea.