Le primarie? Ormai sono diventate secondarie
Nelle primarie Pd in alcune grandi e medie città, a vincere, com’era prevedibile, sono stati i candidati sostenuti dalla segreteria e quindi Renzi può esultare. Ma si tratta di un successo a metà. Le elezioni hanno messo in evidenza una serie di contraddizioni che hanno tolto credibilità a queste consultazioni.
Nel week-end ci sono state le primarie Pd in alcune grandi e medie città italiane per la scelta dei candidati sindaci. A vincere, com’era prevedibile, sono stati i candidati sostenuti dalla segreteria nazionale del partito e quindi Renzi può esultare. Ma si tratta di un successo a metà. La consultazione ha messo in evidenza una serie di contraddizioni e criticità che erano già esplose nelle precedenti elezioni primarie e che hanno finito per offuscarne credibilità e utilità.
Anzitutto una considerazione sull’affluenza. A Roma è stata decisamente ridotta rispetto a quelle che, tre anni fa, erano state vinte da Ignazio Marino. Nelle altre città, Napoli in particolare, c’è stato un boom di votanti, ma la competizione esasperata ha prevalso sulla partecipazione, nel senso che sono molto probabili spaccature in ambito locale tra le correnti dem. Vuol dire che gli sconfitti non accettano l’esito delle urne e decidono di puntare su un candidato diverso da quello risultato vincente. Nella capitale si fa già il nome di Massimo Bray, ex ministro della cultura, vicino a Massimo D’Alema, e che potrebbe correre per uno schieramento di sinistra in grado di aggregare tutti gli scontenti e anche i fuoriusciti Pd (Fassina in particolare) e perfino il sindaco uscente Marino. Se fosse così, ben difficilmente Roberto Giachetti, vincitore delle primarie Pd, potrebbe arrivare al ballottaggio, considerata l’inevitabile frantumazione dell’elettorato di quell’area politica.
A Napoli la sinistra “social-popolare” ha già il suo candidato, il sindaco uscente, Luigi De Magistris e quindi la partita per la Valente, renziana vincitrice delle primarie, si fa davvero complicata. A Milano, dove le primarie Pd ci sono state a febbraio, Giuseppe Sala, fortemente voluto dal premier, rischia di ritrovarsi contro una parte del popolo arancione, che non ha accettato la sua investitura e intende presentare un suo candidato (forse Curzio Maltese o addirittura Gherardo Colombo). Tutti questi esempi fanno capire che le primarie, piuttosto che stimolare partecipazione ed entusiasmo, seminano veleni e acuiscono le divisioni. Consentono di raccogliere fondi, ma non risultano più di tanto rappresentative dell’elettorato.
Sul versante del centrodestra, l’avversione verso quello strumento di selezione dei candidati sembra invincibile, tanto che a Roma ci sarà prossimamente una consultazione puramente confermativa sul nome di Guido Bertolaso, sostenuto convintamente da Berlusconi e Meloni e avversato da Salvini, Marchini e Storace. Una sorta di consultazione su un solo nome: pro o contro. Niente che abbia a che fare con una sana competizione tra candidati. Inutile sottolineare che le lacerazioni nel centrodestra e nel centrosinistra appaiono destinate a favorire i grillini, che, altro paradosso delle primarie, scelgono i loro candidati on line con il voto di qualche centinaia di aderenti, dunque con una base partecipativa molto scarsa e sicuramente più risicata di quella dei partiti tradizionali.
Ricapitolando, primarie divisive a sinistra, risibili o inesistenti a destra e puramente di facciata tra i pentastellati. Ce n’è abbastanza per bocciare questo strumento, che è stato per anni sbandierato come la sublimazione di un più stretto rapporto tra governati e governanti. La verità è che la magistratura e i media hanno contribuito negli ultimi decenni a demolire e screditare il sistema partitico, che peraltro ci ha messo molto del suo per delegittimarsi e squalificarsi, cedendo alla corruzione più spinta. Ora, però, non c’è più chi seleziona la classe dirigente. La tecnocrazia è una conseguenza di questo vuoto politico che, nella cosiddetta seconda Repubblica, non è mai stato colmato.