SCENARI
Le piazze arabe dimenticate
Dall'Arabia Saudita allo Yemen,
la situazione nei Paesi nordafricani e arabi che hanno visto rivolte nei mesi scorsi, è lontana dall'essere stabile.
Attualità
05_09_2011
L’hanno chiamata “primavera araba”, ma in realtà tutto è incominciato molto prima, nel cuore dell’inverno. Il 17 dicembre 2010, in Tunisia, Mohamed Bouaxizi, un giovane venditore ambulante, si dava fuoco dopo essersi visto confiscare tutti i beni dalla polizia senza spiegazione. La sua morte innescava un movimento popolare di protesta e un fulmineo effetto domino che subito investiva Algeria ed Egitto e poi, nelle settimane successive, Yemen, Bahrein, Arabia Saudita, Oman, Giordania, Marocco e Siria.
Da quel primo drammatico giorno di dicembre sono trascorsi soltanto otto mesi: troppo pochi per vedere l’esito finale dei cambiamenti avviati, ma abbastanza per capire che, ancora una volta, gli ideali che si credeva ispirassero le rivolte – libertà, dignità personale, giustizia, diritti umani – stentano a trovare dei portavoce e a tradursi in istituzioni democratiche e in concreti progetti sociali. Per di più, il mondo sembra quasi aver dimenticato che anche in altri paesi, oltre a Tunisia, Egitto e Siria, maturano i frutti della “primavera araba”.
Uno solo tra quelli insorti, il Marocco, sta attuando delle fondamentali riforme politiche, anche se non tanto sotto la pressione dello scontento popolare che tutt’al più ha indotto il governo ad accelerare un processo di democratizzazione e di promozione dei diritti umani già in atto, avviato negli ultimi 10 anni da re Mohamed VI e di cui la riforma del diritto di famiglia, varata nel 2004, ha costituito una delle pietre miliari. La nuova Costituzione, redatta da una commissione nominata dal re e approvata il 1° luglio da un referendum popolare, apporta profonde modifiche alle istituzioni politiche, prima fra tutte il rafforzamento dei poteri del primo ministro che, tra l’altro, d’ora in poi non sarà più nominato dal sovrano, ma sarà espressione del partito di maggioranza. Rilevanti sono anche le innovazioni introdotte nel sistema giudiziario volte a rendere più rapido e trasparente l’operato dei giudici e ad agevolare l’accesso alla giustizia a tutti i cittadini. Inoltre il re, per accelerare la realizzazione delle riforme previste, ha deciso di anticipare di dieci mesi, fissandole al prossimo 25 novembre, le elezioni parlamentari.
Anche la Giordania è riuscita a contenere le proteste avviando un meno radicale, ma tuttavia promettente processo di riforme costituzionali che verranno discusse in parlamento a partire dal mese di settembre. A febbraio il primo segno di buona volontà da parte di re Abdallah II si è avuto con la costituzione di un nuovo governo affidato a Maarouf al Bakhit, bene accolto dalla popolazione ad eccezione del braccio politico giordano dei Fratelli Musulmani, il Fronte di azione islamica, che ha rifiutato di entrare nella coalizione di governo all’interno della quale gli erano stati offerti cinque importanti ministeri.
In Oman e in Arabia Saudita le rispettive case regnanti hanno scelto invece di calmare le piazze attingendo alle ricchezze petrolifere di cui dispongono.
L’Oman, grazie al petrolio, vanta un PIL pro capite di oltre 26.000 dollari e una speranza di vita alla nascita di 76 anni: valori che lo collocano tra i paesi ad alto sviluppo. Ma i dimostranti chiedevano posti di lavoro, riforme politiche, contrasto alla corruzione, riduzione delle disuguaglianze economiche. Lo scorso 28 febbraio il sultano Qaboos bin Said, al potere da 40 anni, ha annunciato provvedimenti economici tra i quali la creazione di 50.000 nuovi posti di lavoro nel settore pubblico e un sussidio mensile di circa 400 dollari per i disoccupati.
In Arabia Saudita, re Abdallah a sua volta ha rifiutato qualsiasi apertura in senso democratico e ha assicurato la tenuta della monarchia assoluta aprendo i cordoni della borsa. Ha disposto incentivi e 60 mila nuovi posti di lavoro nell’esercito e nelle forze di sicurezza, il pagamento di due mensilità una tantum ai dipendenti pubblici, civili e militari, di due mensilità supplementari agli studenti vincitori di borse di studio e l’innalzamento dei salari minimi a 3.000 rial. Inoltre ha destinato fondi al sistema sanitario e alla costruzione di 500 mila abitazioni. La monarchia si è mossa però anche sul fronte della repressione. È infatti in corso di discussione una legge che intende criminalizzare qualsiasi forma di dissenso politico e che amplia il potere del ministro degli interni. Secondo Amnesty International, se approvata, la nuova legge aprirà la strada a violazioni dei diritti umani di massa.
In Algeria il dissenso popolare è stato finora contenuto, ma con la forza. Tuttavia non passa giorno senza che si verifichi un attentato, spesso compiuto da kamikaze. L’ultimo, un duplice attentato suicida, è stato messo a segno il 26 agosto all’ingresso dell’accademia militare di Cherchell, a cento chilometri da Algeri. Ha provocato 18 morti e decine di feriti. È in Algeria che si registra inoltre il maggior numero di suicidi di protesta: più di 20 persone dall’inizio dei disordini si sono date fuoco o hanno cercato la morte con altri mezzi.
Diversa ma non meno tesa è la situazione in Bahrein dove, così come in Yemen, i dimostranti, o almeno una parte di essi, vanno oltre alla rivendicazione di condizioni di vita migliori e dove non è nemmeno la democrazia ciò che più sta loro a cuore: perché sono sciiti, maggioranza della popolazione in Bahrein e comunità di minoranza in Yemen, e quel che vogliono è la fine della supremazia politica sunnita nei rispettivi paesi.
In Bahrein le offerte di dialogo di re Hamad bin Isa al Khalifa, accompagnate da energici interventi delle forze di sicurezza che hanno causato decine, forse centinaia di vittime tra i civili, hanno infine limitato la portata delle proteste, ma proprio in questi giorni in molte città si stanno verificando nuovi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in seguito alla morte di un ragazzo di 14 anni avvenuta il 31 agosto, durante una manifestazione antigovernativa svoltasi a Sitra.
Lo Yemen, per finire, è stato teatro di scontri particolarmente cruenti e tuttora vi regna il caos. Da giugno il presidente Abdullah Saleh si trova in Arabia Saudita per cure mediche dopo essere stato seriamente ferito durante un assalto al palazzo reale da parte di migliaia di dimostranti. Sin dall’inizio si è detto disposto a negoziare, ma finora non ha fatto concessioni a meno di intendere come tali l’affermazione di essere pronto a indire delle elezioni presidenziali libere e di essere favorevole a una transizione pacifica del potere. La questione fondamentale è se persisterà nell’intenzione di candidarsi per un terzo mandato benché sia la potere da 33 anni e nonostante il fatto che la costituzione limiti a due i mandati presidenziali che una persona può ricoprire.