Le “lezioni” di Hadjadj contro le derive della post-modernità
Dalla piaga della pornografia all’eutanasia, dai limiti del progresso all’uso della ragione e alla testimonianza di fede dei cristiani. Il filosofo francese Fabrice Hadjadj, convertito al cattolicesimo, riflette su alcuni dei temi più caldi dell’attualità con una serie di scritti raccolti nel volume Perché dare la vita a un mortale & altre lezioni italiane (Ares).
«Può darsi che non abbiamo perso lo spirito, ma la materia. È probabile che la perdita di senso che conosciamo oggi, non sia perdita del senso dello spirito, ma perdita del senso della materia. Quando un uomo si disincarna, pretende di smaterializzarsi, che cosa resta perché possiamo prendergli la mano? Che cosa resta affinché possiamo prenderlo tra le nostre braccia? Che cosa resta per toccarlo, per il calore, per la semplice presenza senza parole? Allora, forse, non ha perso lo spirito, ma ha perso lo zoccolo duro del suo spirito, l’ancoraggio del suo spirito, il peso, lo spessore, la concretezza, la sensibilità, il tatto e si potrebbe anche dire la struttura del suo spirito. Questo è il principio della crisi spirituale: ci si smarrisce ora in un materialismo fisico-atomico, ora in uno spiritualismo etereo, perché avendo perso lo spirito della materia, noi non sappiamo più accostarci alla storia della Salvezza e al mistero dell’Incarnazione».
Così Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese di origine ebraica convertito al cattolicesimo, denuncia il materialismo della cultura contemporanea durante una conferenza tenuta all’Università Cattolica, raccolta insieme ad altri scritti nel recente volume Perché dare la vita a un mortale & altre lezioni italiane (Ares 2020, pp. 224). Si tratta di una raccolta di saggi particolarmente significativi, in cui è condensato il cuore della riflessione filosofica del pensatore francese sui temi più caldi della nostra attualità, a partire dalla crisi del senso ai limiti del progresso; dalla pornografia alla genitorialità e all’eutanasia; dall’uso della ragione alla testimonianza di fede dei cristiani.
Nel primo contributo, riflettendo sull’etimologia della parola che rimanda all’attività dell’agricoltore, Hadjadj osserva acutamente che «“il mondo della cultura” è il contrario della vera cultura, perché questa non si compie nell’accumulo di opere d’arte e di serate mondane, ma nel dispiegamento della natura umana, nella cura dell’anima, nella preoccupazione delle persone affinché crescano e fruttifichino». Egli non nasconde critiche all’attuale offerta culturale, intesa quale «immenso divertimento, una fuga davanti al duro lavoro di coltivarsi», laddove al contrario «la cultura implica la necessità di rivoltare la terra del nostro spirito, strapparne le erbacce, sopprimere il legno morto, pulire, sfrondare e orientare i rami verso un migliore soleggiamento».
Rispetto allo strapotere della tecnica e di un progresso tecnocratico ormai fuori controllo, Hadjadj sottolinea che «la tecnica non è più ciò che imita, accompagna e prolunga la natura, ma diventa ciò che rompe con essa, ciò che la ricostruisce, la smonta e la rimonta, la ispeziona e la taglieggia in funzione dei nostri progetti babelici, dei nostri piani faraonici, delle nostre macchinazioni tanto orgogliose quanto schiavizzanti». In sostanza, un progresso che non contempli uno scopo, fine a sé stesso e ineluttabile, «un progresso degli oggetti, non dei soggetti», non è un vero progresso, che è al contrario libero e mira a «salvaguardare la condizione umana». Evitando di porsi domande sul senso di ogni innovazione e accettandola acriticamente, l’uomo ha in realtà «lasciato il logos alla logistica e al logo», per cui «non si tratta più di promuovere l’uomo, ma il cyborg come più perfezionato». Eppure, la via delle “magnifiche sorti e progressive” appare «lastricata di buone intenzioni, anche in nome di un’abolizione totale del male. E devo confessarlo, sotto questo profilo, la cosa è estremamente allettante. Corrisponde anche piuttosto esattamente alle tentazioni di Gesù nel deserto: la scomparsa della fame, l’allontanamento della morte, il controllo totale e prospero di tutti i regni della terra». E in effetti - prosegue Hadjadj - tale idea di progresso trascura volutamente la possibilità di uno sviluppo integrale dell’uomo in vista della Gerusalemme celeste.
Questa visione ideologica ha intaccato anche l’ambito della sessualità e della procreazione, al punto che «il dono della vita si trasforma in diritto ad avere figli, legato al diritto correlativo di non averne e di sopprimere il feto. E allora, la nascita per via sessuale, destinata alla contingenza, cede il passo alla fabbricazione dell’ingegneria biogenetica, più controllabile: non si tratta più di trasmettere la vita ricevuta, ma di produrre un essere adattato ai nostri progetti, la cui esistenza sarà funzionale, i giorni piacevoli e la morte dolce». Se per le civiltà antiche, compresa quella giudaica, essere genitori consentiva di accrescere il proprio status sociale fino alla dignitas illustre di antenato - infatti la stessa dignità di Abramo risiede nell’essere padre di una moltitudine di popoli -, oggi esser padre o madre è invece «segno di un’inferiorità, di una degradazione, di un impedimento per giungere allo status magnificato di soggetto autonomo, o piuttosto di lavoratore atletico, sempre giovane, sempre disponibile all’incontro furtivo». Infatti, il desiderio di trasmettere la vita è figlio «della speranza teologale, di un’oscura fiducia nella vita eterna che non è una fiducia posta sul piano psicologico, ma una fiducia consustanziale alla vita stessa, quella vita che procede dal Vivente e torna al Vivente». Per realizzare tale prospettiva è necessario dunque «rompere l’impero del calcolo e mettersi in relazione con l’imprevedibile», per cui «la mia situazione è rinnovata da cima a fondo e sono i miei progetti che devono adattarsi a questa nascita che è la mia rinascita, e non il contrario». In tale ottica procreare consente infatti di «raggiungere l’atto creatore e perciò di sposare la radice del movimento della vita come gratitudine e come grazia attraverso la Croce».
Riguardo alla pornografia, da buon filosofo, Hadjadj va alla radice della sua essenza. Essa trae la sua forza magnetica proprio da una dissimulazione del primo comando del Creatore ai progenitori: “Siate fecondi e moltiplicatevi!” (Gen 1, 28); «trae la sua stessa energia dalla generosità genitale, quella generosità che è anteriore alla morale; ma poi devia e rivolge quell’energia contro sé stessa, fino alla nausea». Ma la pornografia cela in sé qualcosa di più profondo, la «cattiva coscienza del mondo tecno-liberale». Infatti «ciò che donne e uomini sono diventati nei video X è il riflesso di ciò che sono già nel lavoro e nel tempo libero, in un mondo percepito come interamente disponibile, fuori dalla storia e dalla successione delle generazioni, che tratta la natura - la natura umana specialmente - come un mezzo per produrre divertimento, fuga davanti all’angoscia della morte, nell’oblio di ogni senso della creazione e di ogni ecologia integrale», rendendo in questo modo «il sesso espropriato dei suoi poteri più specifici, la carne schiacciata su uno schermo» e ciascuno «consumatore e consumato».
Sul ruolo dei laici, lo scrittore francese evidenzia che «il fedele laico non fa cose che gli altri non fanno: fa le stesse cose - diversamente; compie ciò che chiunque può fare, nella grazia e rendendo grazie, come un pieno dispiegamento della Vita in lui», nella consapevolezza che «Dio si è fatto uomo, affinché l’uomo resti umano».
Nei saggi di Hadjadj non mancano strali contro le derive della postmodernità che hanno edulcorato persino l’essenza dell’amore. A tal proposito il filosofo francese sottolinea come è proprio «in nome dell’amore, e non della verità, che si promuovono l’aborto, l’eutanasia, il matrimonio unisex, il consumismo, il transumanismo. L’unione della ragione tecnica e del sentimentalismo genera questo mostro: una compassione armata che pretende di fabbricare un individuo pacificato calpestando il dato naturale». Al contrario «amare qualcuno è prima di tutto ripetere la parola del Creatore: “Che sia!”»; ossia ammettere che “È bello che tu ci sia!” prima di pronunciare “Ti voglio bene” o “Ti amo”.
Quella di Hadjadj è una scrittura che coniuga, attraverso il ragionamento filosofico, un’intuizione profonda del reale con immagini poetico-evocative tratte spesso anche dal linguaggio biblico, che rendono la sua lettura particolarmente gradevole e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”.