Le elezioni Usa diventano una “guerra di trincea” identitaria
Ascolta la versione audio dell'articolo
Con l'entrata in scena della Harris si rafforza il quadro di “guerra di trincea”, in cui ciascun candidato punta a vincere non conquistando gli elettori incerti, ma motivando i già favorevoli. Le consultazioni saranno cariche di tensione.
A distanza di dieci giorni dal “passo indietro” di Joe Biden dalla candidatura alla Casa Bianca - vistosamente forzato dall'establishment Dem e dai suoi grandi finanziatori - e dalla repentina investitura, altrettanto forzata, di Kamala Harris al suo posto, è possibile tracciare un primo, provvisorio bilancio su come si sia riconfigurata la competizione elettorale per la presidenza, e più in generale su come si vada evolvendo la dialettica politica statunitense.
Innanzitutto, appare evidente che il colpo di mano che ha portato alla sostituzione di Biden, pur essendo stato incubato a lungo, abbia subìto una improvvisa accelerazione proprio in seguito al fallito attentato a Donald Trump il 13 luglio scorso, e all'investitura dello stesso Trump nella convention repubblicana nei giorni immediatamente successivi. L'enorme emozione suscitata dallo scampato pericolo e la statura solenne che la figura di Trump aveva assunto, sommati allo spettacolo di palese inferiorità data da Biden nel dibattito televisivo del 27 giugno, hanno dato l'impressione che i giochi per la presidenza fossero ormai sostanzialmente chiusi, e hanno convinto i Dem e i loro sponsor che fosse necessario rompere immediatamente gli indugi, operando un cambio in corsa per provare a invertire quella che sembrava ormai l'inerzia quasi inevitabile delle cose.
L'operazione, tuttavia, era ardua. Una volta superate senza troppi complimenti le residue resistenze di Biden e della sua cerchia più stretta, si presentava ai Dem una poco piacevole alternativa: designare al posto del presidente in carica come candidata la sua vice Kamala Harris, tanto unanimemente impopolare e imbarazzante da essere stata praticamente “silenziata” per quattro anni dai media amici per paura di figuracce ogni volta che prendeva la parola? Oppure arrivare alla Convention democratica di agosto, dopo che Biden aveva già vinto le primarie, senza un candidato prescelto, con l'altissimo rischio del caos totale nel partito, di lacerazioni incomponibili, e quindi di un clamoroso effetto boomerang?
Dopo alcuni giorni di tormentosi ripensamenti, in cui i “clan” tra i quali il partito è diviso avevano ingaggiato un furibondo braccio di ferro (in particolare, il circolo dei Clinton e la sinistra radicale a favore di Kamala, la cerchia di Obama decisamente contro) si è giunti infine a una decisione: concedere alla Harris l'eredità della candidatura di Biden - e soprattutto dei cospicui finanziamenti già erogati al ticket Biden-Harris, che passano a lei automaticamente - passando sopra ogni procedura, ogni perplessità nel partito e la volontà già espressa da tanti elettori nelle primarie.
Oltre che a motivazioni pratiche e finanziarie, la scelta in favore della Harris rispondeva anche a un ragionamento preciso di strategia elettorale. Contro un avversario come Trump che ha consolidato e mobilitato al massimo la sua base elettorale di partenza, cioè l'America “perdente” lontana dalle élites (consolidamento ulteriormente sottolineato dalla nomina di J.D. Vance, cantore degli hillbillies e della Rust Belt deindustrializzata), i Dem scelgono di candidare Kamala Harris non per sue posizioni o proposte politiche (da sempre poco originali ripetizioni di parole d'ordine ideologiche correnti), e men che meno per rivendicare le sue performance come vicepresidente (molto imbarazzanti, specie in tema di immigrazione) ma come pura “icona”, personaggio simbolico identitario, costruito per creare una mobilitazione speculare a quella trumpiana, e tentare di contrastare l'erosione del consenso a favore dei repubblicani in categorie di elettori storicamente fedeli ai democratici: in particolare afroamericani, donne, ispanici, nella prospettiva di una competizione ridotta a “guerra di trincea” integralmente polarizzata.
A tale scopo, si mette subito in moto - con l'appoggio della stragrande maggioranza dei media mainstream, solidamente schierati sul fronte progressista – una colossale operazione pubblicitaria: mentre i media occultano il più possibile le notizie e il dibattitto sull'attentato contro l'ex presidente (fino ad arrivare alla clamorosa manipolazione del motore di ricerca messa in atto da Google), essi costruiscono al contempo una enfatica narrazione celebrativa di Kamala come paladina intrasigente della giustizia e dei diritti delle minoranze. Una narrazione immediatamente ripresa dall'altra parte dell'Oceano con toni adulatori ancor più tragicomici, e completamente scollata dalla sua storia personale e politica, irrigidita in uno stereotipo sempre pronto all'uso.
La neo-nominata, dal canto suo, ha prontamente corrisposto a questa strategia esprimendosi pressoché solo con frasi-slogan, qualificandosi come l'opposto speculare di Trump nel segno di quella che in Italia all'epoca di Berlusconi qualcuno a sinistra chiamava “diversità antropologica”, ed evitando accuratamente di convocare conferenze stampa, perché qualcuno deve averle consigliato evidentemente che meno parla di contenuti e programmi, meglio è per lei: in quanto ricorderebbe immediatamente agli elettori la sua inadeguatezza già più volte emersa in passato, e presterebbe il fianco alle critiche di chi le rinfaccerebbe la totale corresponsabilità con le politiche messe in atto dal “suo” presidente.
La strategia del “santino” identitario e della delegittimazione radicale dell'avversario, unita a quella dello “scantinato” già usata all'epoca di Biden, sembrano consistere in gran parte nel lanciare la palla nel campo degli avversari, sperando in risposte aggressive ad personam da additare sistematicamente come “razziste” e “sessiste”, e radicalizzando così ancor più le contrapposizioni.
Il brusco cambiamento di scenario e l'impressione di vitalità data dalla nuova candidata rispetto alla catatonia di Biden sembrano aver prodotto effettivamente un effetto tonificante sull'elettorato democratico, riportando fiducia in fasce disaffezionate di esso: un effetto attestato in misura variabile da tutti i sondaggi condotti da allora. E, corrispettivamente, esso ha certo creato un disagio nella campagna repubblicana, non di rado caduta nella trappola di risposte polemiche indirizzate a ciò che la Harris è o pretende di essere, piuttosto che alle sue azioni o idee, facendo in questo modo il gioco dei suoi avversari. Ma dopo la prima “luna di miele” (che potrà avere una coda nella convention) già si nota un assestamento dei consensi dei due contendenti percentualmente non molto diverso da quello dei mesi scorsi tra Trump e Biden. L'unica differenza – come rileva un sondaggio dell'agenzia McLaughlin aggiornato al 29 luglio, pare risiedere nel fatto che entrambi i candidati guadagnano voti tra porzioni di elettori già tradizionalmente a loro favorevoli (neri e ispanici, appunto, la Harris; bianchi, popolazione rurale, uomini e donne sposati Trump).
Con l'entrata in scena della Harris, insomma, si rafforza il quadro delle elezioni di novembre come “guerra di trincea”, in cui ciascun candidato punta a vincere non conquistando gli elettori incerti, ma motivando fortemente e portando a votare i già favorevoli. Ed è ben noto, per la geografia elettorale attuale degli States, che la corsa alla Casa Bianca si decide in 6-7 stati in bilico, laddove negli altri il risultato è quasi acquisito.
Questo quadro fa presagire consultazioni cariche di tensione fino alla fine, fortemente dipendenti dalla percentuale di votanti e dalle modalità di voto (in un clima di forti dubbi persistenti sull'uso del voto per posta e per delega). E fa presagire parimenti che quelle tensioni, quale che sia il risultato, non si stempereranno nemmeno questa volta dopo il voto. Con gravi rischi per la tenuta delle istituzioni dell'Unione.