Le donne di Lucetta (Scaraffia)
La storica Lucetta Scaraffia non è certo una femminista, ma sull'ultimo numero di Vita e pensiero lamenta il ruolo secondario occupato dalle donne all'interno della gerarchia ecclesiastica. Ma le "quote rosa" farebbero bene alla Chiesa?
Sull’ultimo numero di Vita e pensiero, la rivista bimestrale dell’Università Cattolica (marzo-aprile 2014) la storica Lucetta Scaraffia, docente alla Sapienza di Roma ed editorialista de «L’Osservatore romano» ha pubblicato un suo intervento dal titolo «Più spazio alle donne, per il bene della Chiesa». La Scaraffia non è da considerarsi una cattoprogressista e, anzi, più volte ha alzato la voce contro il relativismo imperante, con interventi lucidi, anche a proposito dell’islam, che a molti sono sembrati di posizione conservatrice. Quantunque sia una contemporaneista, ha scritto molto sulla religiosità femminile e la storia delle donne nella Chiesa. Malgrado il titolo dell’intervento su «Vita e pensiero», la Scaraffia non è una femminista nel senso classico del termine.
Tuttavia, è da sempre convinta che un maggiore spazio per le donne all’interno della Chiesa non potrà che fare del bene alla stessa. Quel che lamenta non è certo la scarsità dell’elemento femminile, visto che, anzi, le religiose superano in numero i maschi. No, il problema per lei è il non coinvolgimento delle donne nelle stanze dei bottoni, giacché i centri decisionali ecclesiastici, specialmente al vertice, rimangono saldamente in mani esclusivamente maschili. Nell’articolo –che non è accademico, ma più che altro uno sfogo- non si spinge a chiedere un ritorno alla prassi dei secoli medievali, quando certe abbadesse erano provviste di bastone pastorale e avevano perciò rango di vescovi, con diritto di sedere nei sinodi e prendervi la parola. Ma si rammarica che in certi luoghi ecclesiastici, come i vescovadi o i seminari, le suore siano tenute al rango di colf: puliscono, cucinano ma non siedono alla tavola che servono.
In effetti, è davvero così, ma si dimentica che certe congregazioni femminili sono nate proprio per questo. Per esempio, nel 1878 il beato Tommaso Reggio (1818-1901), vescovo, creò a Ventimiglia le suore di Santa Marta, la cui denominazione si riferiva al passo del Vangelo in cui Maria Maddalena sedeva ai piedi di Gesù e sua sorella Marta preparava il pranzo per gli ospiti. Per i Padri, Maria era simbolo della vita contemplativa e Marta di quella attiva. Il vescovo Reggio aveva bisogno di qualcuno che si occupasse della cucina e del guardaroba del seminario e del convitto vescovile. Assumere collaboratori esterni avrebbe costituito una spesa in stipendi non sopportabile per la diocesi. Così, poiché c’erano diverse donne desiderose di consacrarsi, propose loro questo compito. Che accettarono liberamente. Oggi le suore di Santa Marta sono sparse per il mondo e si dedicano anche a scuole e opere di assistenza. Se, data la sensibilità odierna, queste suore (quelle di Santa Marta sono solo un esempio tra i tanti) venissero emancipate dal ruolo di servitrici, si tornerebbe al problema che aveva il vescovo Reggio nella sua diocesi. Non solo. Giudicare poco degno il lavoro di collaborazione casalinga rischierebbe di estendere il concetto a quei religiosi (maschi e femmine) che si occupano di anziani negli ospizi, di malati, di orfanotrofi e asili. Anche qui, infatti, c’è bisogno di – ci si passi il termine - bassa manovalanza e, anzi, negli ospedali e negli ospizi l’attività può essere anche più “bassa”. Gli ordini e le congregazioni «di vita attiva» furono creati da fior di Santi e Beati proprio perché questi avevano visto che l’assistenza affidata a salariati lasciava spesso a desiderare, in quanto c’era più amore per il salario che per il bisognoso, un amore e una dedizione che solo la consacrazione religiosa poteva garantire. Chi ne ha fatto esperienza, magari solo per un pranzo, sa che il servizio offerto dalle suore è semplicemente perfetto: non un granello di polvere, non un oggetto non allineato o un tovagliolo non profumato di bucato. Cambierebbe qualcosa se sedessero anche loro a tavola col vescovo mentre quello pranza con un ospite? Molto probabilmente dovrebbero rivedere le loro regole e concordarne di nuove coi superiori.
Ma la Scaraffia, come sappiamo, non si limita a questo. Vede una Chiesa i cui vertici sono tutti maschi e, con qualche ragione, osserva che, oggi come oggi, ciò lancia al mondo un messaggio sempre meno comprensibile. Ma la proposta, poi, è per forza di cose generica: associare le donne ai processi decisionali di vertice. Sì, ma come? Il papa e i cardinali sono tutti preti, e pure i monsignori di curia. Certo, un modo di infilare le suore e le monache nelle stanze dei bottoni lo si può sempre escogitare, sperando (ma solo sperando) che ciò faccia «il bene della Chiesa». Infatti, basta dare un’occhiata al mondo, laico, della politica: ci sono gli abili e gli incompetenti, gli onesti e i corrotti, i furbi e gli ingenui. A prescindere dal sesso. I recenti scandali legati alle grandi opere mostrano come gli indagati o addirittura gli arrestati abbiano le loro «quote rosa». Perciò, proprio la Chiesa, in un momento per essa così delicato, dovrebbe preoccuparsi di reclutare competenze e ortodossia senza badare al sesso? Le suore americane, per esempio, sono praticamente commissariate per le loro posizioni estreme in materia teologica. Per la Chiesa costituiscono un problema, e pure grave, non certo una risorsa. Per il suo «bene» forse dovrebbe ridurle tutte allo stato laicale, ma sono talmente tante che rischierebbe uno scisma. Che fare, dunque? Rispondere alle «istanze» del mondo con un massiccio coinvolgimento di «quote rosa», pur se il momento è il meno adatto? O lasciar fare ai Santi fondatori, i quali hanno dato precisi «carismi», cioè compiti, alle loro creature? In attesa di un fondatore che, debitamente assistito dallo Spirito Santo (e magari -come san Francesco, ma non solo- da una visione soprannaturale), dia vita a una congregazione femminile il cui specifico sia di affiancare i capi della Chiesa nelle decisioni più importanti.