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IL COMMENTO

Le cortine fumogene di Zagrebelsky

Dice e non dice, ammette e smentisce. Su Alfie, l'ex giudice Cedu Vladimiro Zagrebelsky arriva a sposare la tesi dell'Alder Hey, pur pensando di fare un favore ad Alfie. 

Editoriali 26_04_2018

“Rispetto, ritegno, cautela”. Inizia così un articolo apparso su La Stampa di ieri a firma di Vladimiro Zagrebelsky, magistrato ed ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Zagrebelsky sta commentando la vicenda del piccolo Alfie. L’abbrivio pare che voglia essere una sponda per sostenere gli sforzi degli Evans ed invece no. Il rispetto, il ritegno e la cautela devono essere prestate all’indirizzo dell’equipe medica più volte incensata come assai preparata. I medici saranno pure preparati, ma nel caso di Alfie non hanno messo a frutto la loro formazione tenuto conto delle innumerevoli inadempienze a danno del paziente che da queste colonne abbiamo registrato e messo in luce.

L’articolo di Zagrebelsky è interessante perché elenca principi corretti, ma li applica male. E’ come professarsi contro il furto e poi tentare di difendere l’esproprio proletario. Partiamo dalla tesi di fondo esposta in modo limpido nell’articolo: le terapie a cui è sottoposto Alfie configurano accanimento terapeutico. Bene hanno fatto i giudici ad ordinare che Alfie venga ucciso per soffocamento. I medici – scrive il Nostro – “affermano che i gravissimi danni cerebrali ormai subiti dal piccolo rendono inutile e causa di sofferenze la protrazione delle cure, con respirazione e alimentazione artificiale”.

Ma, come abbiamo avuto modo di ripetere più volte da queste pagine, il mantenimento in vita di un paziente disabile non è accanimento terapeutico. Si tratta di eutanasia – volontà di procurare la morte al fine di evitare che Alfie viva un’esistenza disagiata – e non di rifiuto dell’accanimento terapeutico, ossia di cessazione da interventi ritenuti sproporzionati. Per Zagrebelsky, ma non solo per lui, curare Alfie è inappropriato perché non può migliorare raggiungendo un livello di qualità della vita accettabile (accettabile poi da chi?). Le cose non stanno così.

La ventilazione, la nutrizione e l’idratazione assistita non sono sostegni inutili, bensì efficaci perché soddisfano il fine loro proprio, ossia rispettivamente lo scambio gassoso nei polmoni e l’apporto di sostanze nutritive. Zagrebelsky invece sostiene, al pari di una certa vulgata giurisprudenziale, che un certo grado di danno cerebrale meriti la morte. Va da sé che il criterio della qualità della vita apre a calcoli relativi alla definizione oggettiva di uno standard di vita difficilmente risolvibili: Alfie deve morire e invece un malato di Alzheimer? Quale è il grado minimo di perfezione fisica e funzionale accettabile? Zagrebelsky risponderebbe che dovrebbero deciderlo medici e giudici. E chi decide che quei medici e quei giudici sono loro stessi portatori di uno standard di vita accettabile (altrimenti il loro giudizio è inattendibile)? Un’altra commissione? La dinamica procederebbe all’infinito e, ahilui, coinvolgerebbe il medesimo Zagrebelsky.

Altro principio buono, ma applicato in modo non pertinente al caso di Alfie: i giudici devono operare per il miglior interesse del minore, a volte opponendosi anche alle volontà di segno contrario dei genitori. Se nella determinazione di cosa sia il best interest del minore sorge un dissidio tra medici e genitori dovrà decidere il giudice. Tutto giusto, ma il giudice deve riconoscere i fatti per quello che sono – come correttamente appunta Zagrebelsky – e non per quello che vorrebbero essere secondo la sua ideologia e inoltre deve giudicare i fatti alla luce del diritto naturale, ossia alla luce della verità morale sull’uomo. Due operazioni in cui hanno fallito i magistrati di Sua Maestà.

Infatti, in merito ai fatti, hanno ritenuto che i trattamenti a cui è sottoposto Alfie configurino accanimento terapeutico. E, relativamente alla valutazione morale, i giudici hanno ritenuto che il miglior interesse di Alfie sia morire, perché meglio la morte che una vita da disabile. Anzi più precisamente, come accade sempre in ogni approccio ideologico, prima si è formulato un giudizio morale a priori e poi lo si è applicato a forza alla realtà distorcendone il senso. E dunque: posto che una vita da disabile non è un’esistenza degna di essere vissuta (giudizio morale) e verificato che Alfie versa in stato di disabilità, ergo tutto quello che lo mantiene in vita è accanimento terapeutico (giudizio sui fatti).

Senza poi contare – aspetto su cui Zagrebelsky pensa che non ci possano essere dubbi – che una diagnosi certa sul quadro clinico di Alfie non è stata ancora redatta. Ammesso che il piccolo Evans abbia pure una patologia neurodegenerativa quale è l’eziologia? Non è dato di saperlo perché i preparatissimi medici dell’Alder Hey non hanno neppur indagato sulla precisa natura della patologia dal momento che Alfie è stato considerato sin da subito un prodotto fallato irrecuperabile, buono solo per i rifiuti ospedalieri.

Torniamo al miglior interesse di Alfie. Il Nostro scrive: “Chi però si è schierato con i genitori e contro i medici sostiene che nella valutazione sia dell’interesse del bambino, che dell’accanimento terapeutico il giudizio decisivo appartenga ai genitori. Si tratta di una visione “proprietaria” del rapporto genitore-figlio, che è priva di fondamento. Il rapporto è di “responsabilità”, non di “proprietà””. Parole sante che sottoscriviamo appieno. Però ci permetta Zagrebelsky due appunti, uno di carattere oggettivo e l’altro soggettivo, cioè riferito allo stesso autore dell’articolo de La Stampa. In merito al primo aspetto: da Aristotele in su un certa scuola di pensiero si è sgolata per secoli al fine di spiegare che il bene oggettivo di una persona – che oggi appunto chiamiamo “ miglior interesse” usando un’espressione assai insipida e non proprio corretta – deve essere individuato dalla recta ratio, ossia dalla ragione che opera correttamente. La correttezza del funzionamento della ragione non è appannaggio esclusivo né dei genitori, né dei medici, né dei giudici e di converso tutti costoro possono errare nei loro ragionamenti.

Come si fa allora a capire se la ragione opera bene o male? Non certo se nei suoi ragionamenti rispecchia fedelmente le leggi scritte dagli uomini o i protocolli in uso negli ospedali, come pare suggerire Zagrebelsky, ma se rispetta le regole del corretto ragionare  e della valida gnoseologia che proprio il Sig. Aristotele ed altri dopo di lui –  in primis  Tommaso D’Aquino – hanno così bene individuato. In breve, il bene oggettivo di Alfie non deve essere deciso da nessuno – tantomeno dalla Suprema Corte inglese o dall’Alder Hey – bensì deve essere riconosciuto da tutti – soprattutto dai giudici e medici inglesi.

Secondo appunto che dicevamo più di carattere personale. Zagrebelsky dichiara che la relazione tra genitori e figli non deve ricalcare i rapporti patrimoniali bensì deve essere caratterizzata da responsabilità. E allora come mai Zagrebelsky è a favore dell’aborto, della fecondazione artificiale, dell’utero in affitto e della stepchild adoption per coppie omosessuali? Tutte pratiche che trovano uno dei loro fondamenti nel principio di proprietà del genitore sul figlio. La proprietà è infatti caratterizzata da un dominio assoluto sulla res, che in questo caso è il figlio. E proprio perché il figlio è di tua proprietà che lo puoi uccidere con l’aborto, che puoi pretendere che venga alla luce con la fecondazione extracorporea e addirittura affittando un utero di un’altra donna se le altre tecniche te lo impediscono, che puoi chiederlo in adozione anche se tu uomo fai coppia con un altro uomo, perché le coppie omosessuali hanno diritto ad un figlio come hanno diritto ad una casa. E dunque perché l’ex giudice Cedu per coerenza non applica il principio di responsabilità dal caso Alfie a tutte queste pratiche? Domanda retorica.

Un’ultima noticina. Scrive Zagrebelsky  in merito alla decisione del nostro esecutivo di concedere la cittadinanza italiana ad Alfie: “Non si può evitare la spiacevole sensazione che il governo italiano creda di dover intervenire per la necessità di sottrarre qualcuno alla persecuzione di uno ‘stato canaglia’!”.  Tutti gli stati che non rispettano il bene comune sono stati tirannici. Volere la morte dell’innocente è una violazione gravissima del bene comune. Quindi sì, nel caso di Alfie il Regno Unito si è comportato da stato canaglia. In secondo luogo a fronte della raffinata sensibilità di Zagrebelsky esacerbata dalla decisioni del governo, c’è un profondo orrore provato da un popolo forse rozzo – in realtà semplice – a motivo della decisione dei giudici inglesi, popolo che non capirà nulla di pandette, cure inappropriate e best interest, ma che sa dare alle cose il loro nome e sa quindi riconoscere un omicidio anche a mille miglia di distanza ed anche al di là delle cortine fumogene che si levano dalle pagine de La Stampa.